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Biforcazione nella civiltà del capitale

Feb 10, 2024

di Mohand, tradotto da: https://entetement.com/bifurcation-dans-la-civilisation-du-capital-ii/

Stanno venendo anni torbidi e sanguinosi. Questo lo dobbiamo sapere tanto meglio quanto più risolutamente rifiutiamo di arrenderci all’ultima figura della morte, arruolandoci sotto la sua bandiera. Capitale illuminista e capitale terrorista, confondendo tutte le carte, si scontreranno in una sgomentante confusione anche nei nostri, stessi corpi, nelle nostre stesse vite. I partigiani della vita non si lasceranno «pacificamente» uccidere, ma non consentiranno alla morte di impadronirsi della loro passione. Lasciamo che i suicidi seppelliscano gli assassini.1

Al giorno d’oggi, i limiti alla perpetuazione della vita, per come la conosciamo, ci appaiano in maniera globale come tante barriere concrete alla distribuzione e al mantenimento della civilizzazione del capitale. La produzione e riproduzione di questa civiltà sono diventate intrinsecamente incorporate nelle possibilità di sopravvivenza della specie. L’essere umano ha superato le capacità materiali del pianeta per soddisfare i suoi desideri. In altre parole, la caduta tendenziale del saggio di profitto, ovvero quella che Marx indica come la principale contraddizione del capitale e quella su cui in diversi scommettono per una ennesima crisi decisiva, esce dal regno astratto della previsione teorica e della sola sfera dell’economia, per concretizzarsi non come una crisi di sovrapproduzione o di sovra-accumulazione, ma piuttosto come una crisi di sotto-produzione delle condizioni essenziali al mantenimento di una certa vita. Nel prossimo futuro, il capitale, poiché ha già colonizzato la totalità integrale del pianeta, non troverà più né abbastanza risorse, lavoro o energia a buon mercato, né delle nuove frontiere da spremere, tali da potersi rinnovare. Dovrà allora affrontare il proprio abisso, il proprio tracollo, essendosi materializzato a partire da un mondo che non si diffonde alla sua stessa velocità. Nella sua caduta non sarà solo: si porterà dietro un notevole pezzo di ciò che costituisce la biosfera. Al giorno d’oggi, partendo da vari prismi teorici e diverse pratiche, la cosiddetta “ecologia politica” tenta di anticipare, prevenire e lottare contro una tale catastrofe. Annunciando tale disastro, contemporaneamente impone sé stessa come sua sola alternativa possibile: Ecologia o Collasso. Ora, nella stessa misura in cui lo sconvolgimento climatico non minaccia la vita in quanto tale, ma piuttosto quella che gli esseri umani conoscono e di cui fanno parte, perché non ci si può immaginare una perpetuazione del processo di valorizzazione anche oltre questa vita che sperimentiamo? Dove ci porta l’ipotesi di una ‘fuga in avanti’ del capitale, non più solamente dalla legge del valore, ma anche dal processo sociale che permette, fin dall’inizio, la sua colonizzazione e la sua espansione: il lavoro umano? In altre parole, si può ricondurre il disastro, che si manifesta come l’annuncio dell’apocalisse, unicamente a una distruzione del mondo? Non potrebbe invece prendere la forma di un posizionamento radicalmente differente della civiltà del capitale? Non potrà, anch’essa, biforcare?

Non vogliamo suggerire che il capitale oggi sia in grado di emanciparsi dall’umanità, dalla quale estrae l’energia necessaria alla sua produzione e riproduzione, ma si tratta di comprendere in che modo l’articolazione di una tale ipotesi, con il divenire catastrofico delle condizioni d’esistenza, permetta, forse, di evitare la trappola di una certa “ecologia politica”: la generalizzazione e intensificazione del dispotismo del capitale e l’addomesticamento de “l’umanità”.
L’ecologia, è noto, si presenta come l’inclusione coscienziosa delle relazioni tra gli esseri e il loro intorno, e di conseguenza si oppone ad un modo di produzione immediatamente distruttivo. Il problema sta nel fatto che un tale distinguo non considera la perpetuazione dell’orrore anche oltre un modo di produzione estrattivista e inquinante. Tale opposizione, infatti, reifica il capitale (o la moderna tecnica di produzione) rispetto alle sue conseguenze e si differenzia da esso astrattamente, senza mettere in discussione né le proprie origini né la possibile ricollocazione del processo di valorizzazione che essa stessa mette in moto. Limitare il capitale alle sole multinazionali dominanti che distruggono la biosfera, significa limitare l’orizzonte delle lotte, privarsi di una possibilità offensiva reale, significa rendere possibile una gestione sempre più integrale del vivente, lo stesso vivente che si dichiara di voler salvare. Tra gli esempi come Voyage en misarchie2 o il Metaverso di Mark Zuckerberg, appaiono tutta una serie di sfumature di esistenze ricondotte sotto il dispotismo del capitale, un capitale ormai capace di rendersi perenne attraverso la trasformazione del suo rapporto con la natura, che si tratti di integrarla totalmente o di diminuire la sua presa su di essa tramite la costituzione materiale di una “seconda natura”.

In effetti, la civiltà del capitale presuppone una “cosmotecnica”3 particolare – o per dirla con Leroi-Gournhan, una sua “tendenza tecnica”4 (ovvero la sua caratteristica di continuare a conservarsi alimentandosi delle sua specificità) – che implica con il suo sviluppo una distruzione sempre maggiore del vivente. La cosmotecnica occidentale, diventata ormai planetaria5, articola una separazione tra il divino e l’umano, tra il soggetto e l’oggetto, tra la specie e il suo ambiente, etc., preservando sempre un primato gerarchico presso il suo polo soggettivo. Immagini di questa tendenza costitutiva dell’ideologia dominio dell’uomo sulla terra sono il rifiuto dell’animalità o la glorificazione del logos o del pensiero. Se, per Cesarano come per Adorno6, lo sviluppo storico di questa relazione si realizza uniformemente a partire da un’unica tendenza, dalle origini paleontologiche della specie umana alla formulazione del progetto idealista cartesiano fino alla produzione della “persona sociale”, l’apporto di Yuk Hui permette di relativizzare questa generalizzazione. Ciononostante, la biforcazione cosmotecnica occidentale – che permette alla civiltà del capitale di diventare un’egemonia planetaria e che, di conseguenza, per la prima volta fa apparire la specie a se stessa come umanità astratta – sembra essere la generalizzazione della separazione e del primato del soggetto sull’oggetto.

“Dall’ideologia del dominio sulla natura, è immediatamente determinata la prassi del dominio degli uomini sugli uomini, bellum omnium contra omnes, e sulla contraddizione genetica tra l’essere della specie pragmaticamente partecipe del movimento organico naturante e l’istituirsi della specie come soggetto del saper essere si fonda la determinazione storica della produzione del valore, come valorizzazione di non-vita; produzione, antagonistica al movimento naturante, di “realtà” organizzata, dove lo scambio di valori, cioè lo scambio economico, rigido, di entità astrattamente equivalenti estratte come materia bruta dal movimento organico, si sovrappone al movimento organico negandone la sostanza naturante, abolendone il senso e la coerenza organica istantanee, e si istituisce come universo illusorio, “reale”, sostanzialmente antagonista alla evidenza organica del movimento naturante, calando, tra il sé soggetto del saper essere e “persona sociale” e il sé generico alienato nelle condizioni di produzione e ridotto a materia bruta – forza-lavoro, collettività produttiva di valore -, lo schermo della organizzazione delle apparenze.”7

Così, considerare la possibilità che il capitale sfugga al disastro annunciato tramite la realizzazione della sua sostanzializzazione implica che esso giunga, in un modo o nell’altro, a restringere l’incoerenza originale sulla quale si è costruito. Una tale possibilità implicherebbe un cambiamento cosmotecnico del capitale, una sua rivoluzione metafisica. Si tratta allora di considerare una capitale rivoluzionario, non più solamente per il fatto che sarà riuscito ad emanciparsi dall’antica contraddizione lavoro/capitale, ma perché s’impegna ormai a sfuggire a quella che contrappone la cultura alla natura. In questo modo, il capitale non produrrebbe più dei modi di vita in quanto conseguenze del suo dominio, ma dominerebbe tramite la produzione di modi di vita. L’elaborazione di una posizione realmente offensiva, che vuole affrontare questa civiltà, non può fare a meno di una particolare attenzione in merito agli attori di tale biforcazione.

Possibilità oggettiva e possibilità reale.

Sia chiaro, il capitale non ha ancora pienamente innescato una transizione verso quello che alcuni chiamano lo “sviluppo sostenibile”. È ancora interamente dipendente da quello che un Moore potrebbe definire “Natura a buon mercato” (ovvero, in generale prezzi bassi per i “quattro grandi fattori produttivi”: il cibo, il lavoro, l’energia e le materie prime8). Ma limitarsi a questo fatto sarebbe di nuovo un prendere il capitale per quello che è stato e non per quello che diventa o quello che può essere. Non è una negazione del materialismo prendere sul serio la recente affermazione di Bruno Latour:

“Abbiamo cambiato cosmologia”9

Se riprendiamo dunque la definizione di Yuk Hui, il cambio di paradigma, o piuttosto di “cosmologia”, non implica di concerto che tale transizione investa immediatamente le attività tecniche, poiché questa fa fatica a legarsi a quello che Hui denomina “ordine morale”. Ne è prova il poco spessore effettivo delle questioni ecologiche nel dibattito pubblico così come nelle decisioni politiche. Constatare un “Nuovo Regime Climatico” non ha sempre un impatto reale sui nostri modi di vita, nonostante l’esplicita urgenza. Tuttavia, questa idea è nella testa di tutti. La generalizzazione di questa presa di coscienza sul “mondo in cui viviamo e il mondo di cui viviamo10 invita anch’essa a non limitare l’analisi del mondo solamente alle condizioni materiali già prodottesi e conosciute. L’errore dell’ecologia politica sta nella pretesache la risoluzione di questa disgiunzione – attraverso la realizzazione di una identità tra una nuova cosmologia e una nuova morale – permetta di stabilire dei rapporti tecnici coerenti con il divenire del mondo, e così impedire il disastro. Sembrerebbe esserci una confusione tra il modo in cui appare tale disastro attraverso l’immediatezza della catastrofe e la sua verità storica, ovvero quella della “catastrofe permanente”. A nostro avviso, una tale confusione risiede in una incomprensione della categoria del possibile, limitata a essere solo una probabilità delle previsioni prodotte a partire da dei “fatti” scientifici. Ernst Bloch, per uscire da questo positivismo, propone un distinguo tra due tipi di possibilità: il possibile oggettivo e il possibile reale. Nel primo volume del suo Il principio speranza, scrive:

Obiettivamente possibile è tutto ciò il cui verificarsi sia scientificamente attendibile o almeno non possa venire escluso sulla base di una conoscenza semplicemente parziale delle sue presenti condizioni. Realmente possibile invece è tutto ciò le cui condizioni non sono ancora completamente radunate nella sfera dell’oggetto stesso; Sia che debbano ancora maturare, sia che, soprattutto, emergano le nuove condizioni – mediate da quelle già esistenti – necessarie per la nascita di un nuovo reale.”11

Questa distinzione permette di approcciare il divenire della materia, partendo non solo da quello che in un passo precedente della stessa opera definisce un “futuro non autentico”12 – cioè la riproduzione o la ricollocazione di qualche cosa che è già stata (la caduta di una pietra, il comprare una nuova macchina, il conquistare un diritto…) – ma partendo anche da un “futuro autentico” – qualcosa che non è mai venuta in essere, ma che è reso possibile appunto per questa apertura della materia. Questo non significa che si debba escludere dalle nostre ipotesi politiche qualsiasi inquietudine che si basi su possibilità oggettive (come quelli illustrati dai rapporti del GIEC [ndt: Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico], per esempio), tuttavia limitarsi a queste sole ci impedisce di considerare la nostra stessa erranza, nel tentativo di far esistere una posizione realmente antagonista alla civiltà della catastrofe. Peggio ancora, ci condannano a vagare con essa.13 Per Bloch, in Il Principio speranza, questa apertura della materia gli permette di annunciare, con linguaggio speculativo, la possibilità reale della necessaria realizzazione del Sommo Bene14. A noi permette di vedere, dal punto di vista del capitale, il disastro come la continuazione e la perpetuazione del processo di valorizzazione basato su una trasformazione radicale dei suoi presupposti; non più, quindi, solo come “fine del mondo”, ovvero come una astrazione priva di senso (anche se le previsioni “oggettive” a breve e medio termine, legate al cambiamento climatico, sembrano molto reali e l’orrore delle loro conseguenze evoca paesaggi apocalittici). Non si tratta qui di negare l’imminenza di catastrofi legate all’estrattivismo, allo squilibrio climatico, ai vari inquinamenti, o di possibili crisi economiche; si vuole però considerare seriamente la possibilità che la cosmotecnica occidentale, la quale è presupposta storicamente dal processo di valorizzazione e che sembra mantenersi, per numerosi ecologisti, come condizione possibile del “Nuovo Regime Climatico”, possa radicalmente trasformarsi senza che questo significhi la fine della produzione e della riproduzione del capitale. In altri termini, bisognerebbe accettare d’immaginare che una parte dell’economia politica desideri la stessa cosa dell’ecologia politica. E se non proprio in questo momento storico, allora nel prossimo futuro. Dire questo non significa affermare che il movimento del capitale stia già attuando la “transizione” ecologica. Tuttavia, significa riuscire ad osservare all’interno del capitale e delle sue tendenze contraddittorie, l’orizzonte verso il quale può sperare di perpetuare il suo processo 15. Da lì potrebbero innescarsi, forse, delle “certezze”.

Ecologia/Economia

“Di fronte ai problemi dell’inquinamento e della rarefazione delle materie prime, l’economia, come scienza dell’organizzazione di un certo dominio geografico, tende a essere soppiantata dall’ecologia […] Ritroviamo una convergenza nell’ecologia, che possiamo semplicemente definire come la scienza delle condizioni d’esistenza e delle interazioni tra gli esseri viventi e le condizioni ambientali, ovvero fondamentalmente una scienza dell’adattamento dell’individuo e della specie al loro contesto. La scienza economica è la scienza dell’adattamento ad un contesto preciso: quello del capitale.”16

Oggi, nella nostra comune rappresentazione, nel nostro senso comune, “ecologia” appare ancora come un qualcosa di separato, di diverso dall’economia: due rappresentazioni del mondo non congruenti, l’una estranea all’altra. Il primato di una sensibilità intorno al vivente da un lato, il primato di un utilitarismo destinato alla necessità del profitto dall’altro. Tuttavia, in maniera abbastanza evidente, questa differenza è astratta alla luce di un semplice sguardo storico (se si considera il perido che va dall’inizio del progetto moderno a oggi). Economia e ecologia appaiono come differenti solo nell’immediatezza del senso comune. Una volta compresa l’alterità di una rispetto all’altra, l’ipotetica differenza non è determinata come una indifferenza, anzi: si oppongono, entrano in contraddizione. L’ecologia emerge, per sé, sulla base delle conseguenze nefaste che l’economia moderna ha prodotto sul mondo, mondo sul quale si sostanzializza il valore, tanto che appare per l’economia, in sé, come un freno a tale sostanzializzazione. L’ecologia, tra l’altro, non nasce storicamente come “ecologia”, ma innanzitutto come una molteplicità di rapporti col mondo sabotati da un processo di valorizzazione che suppone il dominio della natura, mentre questi rapporti appaiono per l’economia come altrettanti ostacoli alla sua espansione. Anche se in sé stessa conserva una sensibilità per il vivente, la sua precedente molteplicità è schiacciata dall’unificazione che i termini della scienza moderna le infliggono, poiché l’ecologia si presenta innanzitutto come lo studio delle relazione tra gli esseri e il loro ambiente. Di conseguenza pone le premesse per una scienza più globale, di gestione del pianeta. La nozione di “ecosistema” ne è ampia prova. Eppure, in quanto movimento politico, l’ecologia storicamente si attacca alle conseguenze nefaste dell’economia sul vivente, nello stesso momento in cui risultano entrambe intrecciate tra loro. Non potremmo allora ipotizzare che possano essere, l’una e l’altra, i due poli costitutivi nel movimento dialettico verso un’identità futura?

Effettivamente l’ecologia sembra lottare contro l’economia con delle categorie pratiche e teoriche non necessariamente antagoniste, ma che, anzi, ben spesso risultano convergenti. I limiti dello sviluppo, il primo rapporto del Club di Roma, pubblicato nel 1972, ne è l’esempio perfetto, poiché il presunto impossibile “sviluppo infinito in un mondo finito” è considerato col prisma degli strumenti di modellazione della scienza economica, e tutto l’ecologismo scaturitosi a seguito è un tentativo di mitigare le conseguenze dell’estrattivismo sul quale poggia il capitale. Qualche anno prima, nel 1968, una fotografia del “sorgere della Terra”, presa durante la missione dell’Apollo 8, rappresenta la “presa di coscienza universale” del pianeta in quanto totalità. Porta alla luce il futuro comune di tutti gli esseri viventi, attraverso la conquista dello spazio, a sua volta resa possibile da una certa tecnica. I movimenti ecologisti si costituiscono specificamente su questo tipo di fatti. La divisione in due campi, operata da Jacques Camatte fin dagli anni ‘70 in “Questo mondo che bisogna abbandonare”, rimane a grandi linee ancora attuale: da un parte si trova la costituzione dei racket tradizionali che imboccano la via ecologica come marchetta di distinguo per prendere le distanze nel gioco concorrenziale che contrappone i vari gruppi nello spazio sociale (il partito ecologista), dall’altra ci sono quelli, come La Gueule Ouverte, Vie Claire o l’agricoltura biologica, che tentano di fare informazione, militanza e proposte per delle alternative alle vite capitalizzate, senza però mai distaccarsi realmente dalle categorie del capitale17 o passatiste18.

Più di recente, il desiderio di Bruno Latour, di costituire un “partito della classe ecologica”, il cui obiettivo principale sarebbe prendere il potere per mezzo della democrazia rappresentativa sia a livello statale che a livello europeo, è strutturato da categorie che ormai di base non hanno neppure più un senso, ma che, in più, sono consustanziali alle condizioni di apparizione del“nuovo regime climatico” nel quale staremmo vivendo in questo momento19. Ricordiamoci che Latour ha invitato a votare per Yannick Jadot20. In questo momento la sempre maggiore volontà di includere l’invisibile, il non-umano (sempre e comunque da parte dell’umano), somiglia stranamente ad un modo per ripristinare l’immagine di categorie politiche antiquate, di fatto permettendo ad una “radicalità” politica di dimenticarsi la menzogna contro la quale era insorta, e di ridare del “valore” al diritto, alla rappresentazione, e a tutte quelle leve del potere che bisognava invece destituire. Così, con diversi gradi di autoritarismo, il leninismo verde di Andreas Malm, o il socialismo ecologico di Jason W. Moore costituirebbero una gestione integrale del mondo che non esce in nessun modo dal valore, ma che invece tenta di dirigerlo misteriosamente a qualcos’altro rispetto alla produzione e riproduzione del capitale – senza mai vedere che questa operazione non fa che produrre una sua nuova ricollocazione. Al di là di qualche universitario noto per il suo interesse nella questione, gli attuali movimenti ecologisti, che si tratti di “Youth for Climat”, “Extinction Rebellion”, “Reprise de Terre” o ancora “Soulèvements de la Terre”, si basano indefessamente su categorie contemporaneamente che sono conservatrici o d’avanguardia per la biforcazione metafisica del capitale. Senza pretese di purezza politica, diciamo solo che l’incapacità teorica e politica di questi movimenti di modulare un linguaggio, dei concetti e una formulazione dei loro desideri che non provengano da centri di ricerca universitari o privati, o dalle cornici preconcette dello schermo sociale, può lasciare dubbiosi. O ancora, porta ulteriori interrogativi e dubbi il culto dell’annuncio apocalittico come unica leva di conflittualità, perché, se già di per sé questa campana suona nel vuoto per la sua banalità, allo stesso tempo implica anche, nella sua urgenza, una mobilitazione immediatista che si auto-percepisce come ultimo bastione prima della distruzione. Una tale mobilitazione, però, non sembra concepire la sua interconnessione con il desiderio via via più pressante del capitale stesso: di non dover distruggere il mondo dal quale dipende.

Cesarano, fin dagli anni ‘70, ebbe la lucidità di descrivere, nelle pagine di Apocalisse e Rivoluzione, il legame tra controrivoluzione e integrazione nel processo di valorizzazione della crisi della sopravvivenza della specie:

“A mano a mano che il processo di valorizzazione ha per oggetto esclusivo la sopravvivenza autonomizzata del valore oltre i suoi limiti di crisi, esso integra a sé, nella composizione organica del valore, la sopravvivenza della specie come crisi in processo della vita. È in questa fase di integrazione all’essere-capitale dell’essere della specie (integrazione formale, come si vedrà oltre, ma prammaticamente operante) che la controrivoluzione entra in gioco, quale meccanismo di autoregolazione, al servizio diretto della razionalizzazione capitalista.”21

Coglieva, in questo modo, il movimento che tenta di integrare la stessa sopravvivenza della specie alla perennizzazione del processo di valorizzazione. Tale sopravvivenza si articola comunque all’interno di tensioni insite nelle dinamiche del capitale. Si oppone ad una frazione conservatrice del capitale, quella americana, estrattivista, che desidera continuare il suo progetto terrorista su tutto il vivente. Al contrario, vi è la frazione illuminista, inaugurata dal Club di Roma, che comprende l’esaurimento delle risorse e la necessità di ricollocare altrimenti il processo di valorizzazione. Cesarano coglie quest’ultima tendenza e prende in considerazione la costituzione di un futuro autentico dal punto di vista del capitale. Quest’ultimo, svincolandosi progressivamente dalla sua tendenza distruttrice del vivente e diventando la soluzione alla sua stessa devastazione, pianifica di colonizzare un nuovo spazio, non geografico, ma su un terreno già tracciato, in cui non sono più minacciate le relazioni tra i viventi e il loro ambiente, ma in cui ora viene attaccata consapevolmente l’interiorità.

Nel momento in cui il presidente francese Emmanuel Macron dichiara “le nostre vite, le loro vite, valgono più di qualsiasi profitto”, si vede così che non si tratta semplicemente di una bugia e neppure solo dell’appropriazione opportunista di uno slogan trotskista, ma anche la continuazione di questa “rivoluzione del capitale”. Per uno dei rappresentanti di HSBC, nonostante lo scandalo della sua presentazione, non c’è alcun dubbio che l’umanità si adatterà e, con essa, il valore22. Similmente, sono testimoni dello stesso movimento la “scoperta” di Descola della falsa neutralità nella distinzione tra natura e cultura, e ugualmente la piroetta metafisica elaborata da Bruno Latour e i suoi tirapiedi negli anni 2000, quando integrarono la “natura” come soggetto a pieno titolo nella loro ontologia piatta: la riformulazione di una metafisica adeguata alla perpetuazione del progetto di valorizzazione dell’esistente. Durante un lungo processo storico, dall’estensione alla fabbricazione stessa della “società”, dalla sussunzione formale alla sussunzione reale, si è dissezionato l’essere umano e lo si è poi riprodotto sulla base di un assemblaggio razionalizzato che culmina con il progetto cibernetico: adesso tocca alla “natura” stessa, non solo come pura risorsa, ma come il tutto nel quale questo essere umano esiste e si evolve. La possibilità reale del capitale è la sua identificazione con la natura, mentre la sua possibilità oggettiva è la distruzione della natura se non riesce a raggiungere tale identificazione. In entrambi i casi, è in gioco la totalità della vita per come la conosciamo. Tuttavia, se l’unica analisi del capitale che prevale è quella che lo vede esclusivamente come agente distruttivo, allora ci si rende impossibile lottare davvero contro il suo processo, si è già in ritardo rispetto al presente, e si corre il rischio di condurre la vita in una capitalizzazione sempre maggiore, senza chiedersi se tale vita sia degna di essere vissuta.

Fuga in avanti del capitale, seconda natura e divenire del modo di produzione capitalista.

Jacques Camatte, a partire dalla seconda serie della rivista Invariance, sottolinea che il capitale si è costituito in comunità materiale – ovvero come uno “sviluppo totale del capitale in quanto struttura compiuta”23: una totalità. Questa totalizzazione è possibile solo attraverso la autonomizzazione rispetto alle sue  modalità d’esistenza specifiche, sulla base dei presupposti propri al capitale stesso24. La sua forma estende il suo dominio all’integralità dell’esistenza, mentre esso stesso tende a desostanzializzarsi (per esempio il valore abbandona un referente concreto: non è altro allora che una rappresentazione avulsa da qualsiasi materialità se non quella attribuita dal capitale stesso; più in generale, il costo del lavoro diminuisce e la sua quota diminuisce in ogni merce). Paradossalmente compirebbe il suo divenire totale, dopo essersi riempito del mondo, allontanandosene. Ma questo non è più possibile, poiché il mondo stesso è stato prosciugato da fonti di valorizzazione proprio dalla colonizzazione e estrazione del capitale. Per numerosi pensatori, questa constatazione renderebbe inevitabile una crisi – e questo è ciò che, alla fine, continuano a pensare gli ecologisti i25.

Per altri invece, come Camatte, il capitale riuscirebbe a fuggire, a compiere un “run away” dal sistema che sembra contenerlo. Senza entrare nei dettagli, una cosa del genere sarebbe possibile solo attraverso la generalizzazione del capitale fittizio, che a sua volta non si riduce a tale fatticità grazie a quello che Camatte chiama il fenomeno dell’antropomorfosi. . La totalità che allora costituisce la comunità materiale si basa sulla sussunzione di ogni attività umana e sulla trasformazione delle rappresentazioni degli esseri umani attraverso la forma del capitale stesso.

“Il capitale astrae l’uomo. Il che vuol dire che gli prende tutto il suo contenuto, tutta la sua materialità: forza-lavoro; tutta la sostanza umana è capitale”26.

Questo è ancor più vero al giorno d’oggi. Il processo di valorizzazione ormai è indicizzato non più alla produzione di merci esterne all’essere umano, di merci concrete, ma piuttosto dall’informazione, dai dati, i quali sono emanati principalmente dalla nostra intera quotidianità, piuttosto che dalla sfera classica del “lavoro”. Nel giro di vent’anni, le aziende più “ricche” non sono più quelle produttrici di energia, ma quelle che raccolgono più informazioni, le GAFAM. Il fatto che l’estrattivismo d’informazioni concentri ormai più valore che l’estrattivismo energetico è segno di un passaggio verso qualcosa di diverso, il segno di una possibilità reale per il capitale di fuggire dalle catene del processo di produzione. In effetti, quello che caratterizza questa economia dei dati è l’istantaneità della circolazione, in modo tale che la produzione di plusvalore non sia più limitata alla sua realizzazione.

“Il capitale fugge così ai vincoli del processo di produzione globale, tali come li considerava Marx, e gli è stato possibile solo divenendo rappresentazione. Questa gli permette di ritrarsi, di evitare il processo di produzione; non ha più bisogno di rapportarsi alla sua materialità per acquisire una realtà. Può essere generato, per mezzo della rappresentazione, in ogni istante. Vi è un’apparente creatio ex nihilo, poiché questa è il risultato dell’attività globale di tutti gli esseri umani sotto regola capitalistica. Il dominio reale del capitale sulla società si completa con questa fuga, momento che gli permette adesso di intraprendere la realizzazione di un dispotismo generalizzato su tutti gli esseri umani, facendo in modo che la sua rappresentazione-realtà sia effettivamente la sola e unica esistente”27.

Pertanto, la produzione concreta di una “seconda natura”, nella quale si possa incarnare un processo di valorizzazione libero di tutti i vincoli materiali, è la condizione che apre l’ipotesi di una fuga in avanti del capitale, legata al suo antropomorfismo, e al suo insediarsi, tramite le nuove tecnologie, nell’integralità della vita quotidiana. Questa seconda natura attua un superamento della dialettica tra natura e cultura, tra soggetto e oggetto. È uno spazio non geografico, o meglio, uno spazio che si basa su una nuova geografia, non cartesiana, caratterizzata dallo spostamento immediato, dall’ubiquità o dall’onnipresenza. Di fronte  all’immagine di “Wired” nella serie Serial Experiment Lain del 199828, possiamo riattualizzare la profezia del 1973 del “divenire del MPC”29, nella quale il capitale compiutosi in rappresentazione si materializza sussumendo ogni attività umana nella sua riproduzione, ma anche nel produrre un mondo concreto sovrapposto a quello nel quale si concretizzava (essendo lui stesso il prodotto dell’attività umana). Tra questi due mondi emerge allora una dialettica che, dal punto di vista del capitale, incessantemente ne sfuma la differenza, al fine di inglobare il secondo mondo nel primo. Allo stesso modo, l’avatar non è forse l’esteriorizzazione concreta dell’ego? Costruita precedentemente nella persona sociale, e che, una volta disfattasi del suo involucro di carne e ossa, non fa che sussumerlo? D’altronde possiamo immaginarci, al di là della fantasia della soppressione del lavoro per via dell’automazione, una progressiva scomparsa del lavoro attraverso una sua riduzione a un tempo quasi infimo, ridotto alla creazione di una linea di codice, o nella produzione permanente di data basati su delle interazioni quotidiane. Il plusvalore non sarebbe così prodotto tramite lo scarto dato dalla crescita di tempo di lavoro non pagato (plusvalore assoluto) oppure attraverso una maggiore produzione (plusvalore relativo), ma invece principalmente sulla sola base della circolazione della merce-informazione e delle persone-informazione. In modo tale che l’autonomizzazione della forma si concretizzi, nuovamente, tramite una forma materializzata (la rete, il wired…) che colonizza pian piano tutti gli spazi di vita, e poi li rimpiazza con quelli che lei stessa ha creato. Ne troviamo le premesse, ancora balbuzienti, nell’annuncio del “metaverso”, nelle ricerche della società “neurolink”, nella de-centralizzazione del web con il WEB 3.0, etc. In questo modo la forma autonomizzata del capitale soppianterebbe la vita con la sua vita, sfumando sempre di più la differenza tra le due mantenendo contemporaneamente il primato della sua forma. Non si tratta qui di sostenere, come hanno fatto i situazionisti, che ci sarebbe da una parte una sopravvivenza e dall’altra una vita, e cioè di negare lo status di vita alle esistenze sussunte dalle forme di capitale30. Si tratta, in verità, di affermare che il capitale sta riformulando il suo processo, a fronte dell’impossibilità oggettiva di poterlo perpetuare attraverso la vita per come esiste ora, producendo concretamente una vita distinta (ma legata) alla nostra vita biologica, definitivamente separata da tutte le altre forme di vita precedenti: un avatar. Di conseguenza, la comunità materiale del capitale sarebbe, piuttosto che solamente una tirannia del capitale sulla natura di cui fa parte anche l’essere umano, un tentativo del capitale di identificarsi con questa stessa. Un tale tentativo, se prendesse anche la forma di una comunità umana realizzata, non potrà che esserne sempre una abietta parodia.

È chiaro che un tale futuro, dal punto di vista del capitale, non è l’unico possibile. Come già sostenevano Cesarano e Camatte, è ovviamente una possibilità anche la distruzione totale o parziale dell’umanità e di una parte della vita, poiché per il momento il consumo energetico di questa economia di dati è lungi dall’essere neutro. Ma lo scenario che abbiamo appena descritto, e che è già innescato, non potrà svolgersi senza incrociarne altri, che potranno talvolta entrarci in collisione. In particolare, si tratta di episodi di distruzione generati da guerre o da catastrofi naturali, episodi che permetteranno di ricollocare i capitali delle industrie distrutte verso altri più affini con un tale divenire. Perciò, poiché ognuna di queste calamità riattiverà vecchie tensioni (nazionalismo, lotta di classe, etc.), si dovrà supporre anche una maggiore stretta di controllo delle popolazioni intrecciata con la produzione di questa seconda natura. Una tale profezia, a seconda della gravità di tali catastrofi, potrebbe anche coniugarsi con una diminuzione della popolazione mondiale, riducendo così i bisogni energetici e le materie prime. Infine,la follia colonizzatrice irreprensibile che tende l’occhio sempre più verso lo spazio, sottintende necessariamente uno sviluppo sempre maggiore della ricerca verso nuovi modi di produzione energetica, meno costosi, meno estrattivisti (almeno sul pianeta Terra), ma sempre più potenti.

Conclusione: Ecologia e ricerca di senso

L’annuncio del disastro e il fronte costituitosi per tentare di impedirne il compimento, non sono entrambi una riformulazione contemporanea della mancanza, della cosa “in quanto mancante”31? L’attuale comparsa di questa mancanza?Riscriviamo allora la prima tesi del Manuale di sopravvivenza:

“E mentre il gauchismo più “duro” (e a suo modo più coerente) rivendica un salario per tutti e la destituzione di tutte le forme di distruzione del vivente, sempre più il capitale accarezza il sogno di saperlo accontentare: depurarsi dalla pollution produttiva fino al punto da consentire agli uomini semplicemente di prodursi come le sue forme piene di vuoto, come i suoi contenitori, dinamizzati dal loro stesso enigma: perché ci sono?”32

Tuttavia il compimento della forma riempita di vuoto, che significa la dissoluzione dell’individuo nel suo avatar, non è stato realizzato; e la civiltà dell’opulenza costituisce una minaccia sempre più forte su tutta la vita. Quel che è certo è che il capitale non ha ancora eclissato la presenza del corpo. Ne ha ancora troppo bisogno. E anche se il capitale è ora in grado di esigere il riassorbimento della sua separazione dalla natura, il corpo, nella sofferenza, dirige gnosticamente il desiderio verso ciò che realmente gli manca.

La varietà di approcci politici alla problematica ecologica, senza che si arrivi ad un grado di lotta reale e di un movimento conseguente, non sono allora profondamente legate tra loro dalla riformulazione di una ricerca di senso, che rivitalizzi la finitudine annunciata? In un certo senso, questa è la verità dell’ecologia, una manifestazione di un desiderio di essere che non collassa immediatamente nella totalità del non-senso e che si riconnette con quella “vera fame millenaria”.33. Tuttavia, il legame antidiluviano è spesso di corta durata. La fame d’essere – guidata non da un’esperienza della sofferenza e il desiderio di farla cessare, da una passione, ma invece meramente dal suo annuncio, il quale non tange, se non troppo raramente, il “campo dell’esperienza” – si aggrappa alle categorie del dominio, per rinnovarle. La certezza, qui, non è sensibile. L’insurrezione dei corpi non ha ancora avuto luogo. Le posizioni assunte sono inoffensive. La lotta per l’egemonia si traveste in lotta contro l’egemonia.

“Il mito dominante, è ormai quello dell’apocalisse, cui la dilapidazione di tutto – e la sua autocritica, che dilapida la dilapidazione – sempre più esplicitamente traduce. È questo il punto senza ritorno: come la morte occupa l’intero campo, come si mostra quale il contenuto reale di troppo vuoto, là non resta alla specie che trapassarne l’imago. Ciò che sembra agli arresi un mito impossibile deve apparire agli insorti la verità più banale, e viceversa. O il fine, o la fine: spetta alla critica indicare quale sia l’ultimo dei miti.”34Potrebbe anche essere che, ormai, è la critica stessa che fatica a rientrare nel campo dell’esperienza, riportando in auge un goffo universale, malgrado sé stessa. Non si abbandona nemmeno più a toccare con mano le cose, pavoneggiandosi di averle comprese senza prendere il tempo di immergervisi. La ricerca di senso, il desiderio di liberazione e, per estensione, l’aspetto rivoluzionario dei tanti stili di vita alternativi che stanno proliferando, non sono forse la nuova menzogna che sta assumendo il volto della critica? La politicizzazione a oltranza dell’esistente e il desiderio inconfessato di fare di sé un esempio da seguire: non è questo l’ultimo mito da abbattere? La giustificazione politica della sua esistenza non è forse una nuova maschera che nasconde la ferita? Lì dove non sono presenti né la politica né la rivoluzione, ma risiede invece, nella costante necessità di tradurre la propria esistenza in questi termini, il raddoppiamento del sé, l’instancabile produzione egotica che maschera la corporeità delle nostre esistenze. Non c’è forse, nella repressione incessante delle esperienze negative del mondo – peraltro sempre presenti – in seno ai tentativi di diserzione, il materiale per la costituzione del proprio avatar? La continuazione del patto sociale sotto nuove regole, negli stessi spazi che gestiscono il loro emergere come rifiuto di ciò che oggi costituisce la società, non rende ciechi alla “consustanzialità del suo essere negato con quella di ogni essere negato”35? Si dovrà dunque partire dalla propria ferita, come punto di partenza concreto, dove l’essere negato non mente a se stesso e si percepisce nel vuoto tra l’irrealtà vissuta e l’irrealizzazione del suo essere.


1 G. Cesarano e G. Collu, Apocalisse e Rivoluzione, Dedalo libri, 1973, §78, p. 92

2Ndt: Emmanuel Dockès, Voyage en misarchie, Essai sur un autre monde possibile, Éditions du Détour, 2017. Dalla quarta di copertina: “Misarchia: dove non si tollera il potere. Emmanuel Dockès in questo saggio espone le sue proposte per ripensare la nostra società in tutti i suoi aspetti: la moneta, la democrazia partecipativa, la divisione del lavoro, la proprietà, il posto della gratuità, l’autogestione, la libertà d’impresa, dei servizi pubblici, dell’autodeterminazione…Questa riflessione politica dimostra che le derive autoritarie e liberali attuali non sono una fatalità e che è dunque possibile pensare un’evoluzione radicale della società, in una direzione decisamente inversa. L’opera prende la forma fittizia della testimonianza di un personaggio perso in una terra sconosciuta, di cui scoprirà le regole e le tradizioni. Emmanuel Dockès è un giurista impegnato, professore di diritto all’Università di Parigi Ovest-Nanterre. (…).

3Prendiamo qui in prestito il termine di “cosmotecnica” dal filosofo Yuk Hui, il quale rifiuta di vedere nella nozione di “tecnica” un rapporto universale tra l’essere umano e la natura. Questo rapporto dovrà essere interrogato non solo tramite l’ambiente dentro il quale si evolvono le diverse comunità, ma anche nella sua “relazione a una configurazione più estesa: la “cosmologia” propria della cultura dalla quale è emersa” (Yuk Hui, Cosmotecnica, La questione della tecnologia in Cina, Nero Edizioni, 2021, p. 22). A suo avviso, il pensiero scientifico e tecnico di cui facciamo esperienza emerge unicamente sotto condizioni cosmologiche che si esprimono nelle relazioni, mai statiche, tra esseri umani e i loro ambienti (pp. 27-28). Una cosmotecnica esprimerebbe dunque l’unione dell’ordine cosmico e dell’ordine morale tramite le attività tecniche (p, 29).

4Andrè Leroi-Gourhan, L’uomo e la materia, Jaca Book, 1993, p. 22, citato da Yuk Hui, op. cit. p. 21.

5Considerare la sua storia come una semplice espansione sarebbe superficiale, come se avesse giusto rimpiazzato le altre cosmotecniche incontrate sul percorso. Spesso e volentieri, la cosmotecnica occidentale ha fatto opera di sincretismo con le altre. Per farla breve, potremmo dunque dire che rimane egemonica.

6“Il sistema, in cui lo spirito sovrano s’illudeva di esser trasfigurato, ha la sua storia primordiale nel prespirituale, nella vita animalesca del genere. Gli animali da presa sono affamati; assalire al preda è difficile, spesso pericoloso. Affinché l’animale lo tenti, ha appunto bisogno di impulsi supplementari. Essi si fondono con il senso sgradevole della fame, formando un’ira rivolta alla preda la cui espressione a sua volta atterrisce e paralizza oppurtunamente quest’ultima. Progredendo nell’umanizzazione ciò viene razionalizzato tramite proiezione. L’animal rationale, che brama l’avversario, deve trovare un motivo, essendo già beato possessore di un super-io.”. Théodor W. Adorno, Dialettica negativa, Reprints Einaudi, 1975, p. 21.

7Giorgo Cesarano, Critica dell’Utopia-Capitale, Colibri, 1993.

8Jason W. Moore, Capitalism in the Web of Life: Ecology and the Accumulation of Capital, Verso, 2015. [ndt: libro inedito in lingua italiana, ma l’autore è ben noto per il suo lavoro Antropocene o Capitalocene? o ancora per Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, editi entrambi per Ombre Corte nel 2017 e nel 2015 rispettivamente].

9Bruno Latour e Nikolaj Schultz, Facciamoci sentire! Manifesto per una nuova ecologia, Einuadi, 2023, p. 30, §38

10Ibidem, pp. 33-34, §44.

11Ernst Bloch, Il principio speranza, Garzanti, 2005, I, p. 231.

12Ivi, p. 89: “Tutti gli affetti sono riferiti a ciò che vi è di propriamente temporale nel tempo, cioè al modo del futuro, ma mentre gli affetti adempiuti hanno solo un futuro non autentico, cioè un futuro in cui non avviene obiettivamente niente di nuovo, gli affetti di attesa implicano per essenza un futuro autentico; appunto quello del non-ancora, dunque di ciò che obiettivamente non c’è ancora stato.”.

13Vi è dunque una certa analogia con l’erranza declamata da Jacques Camatte nell’articolo del 1973 “Erranza dell’umanità. Coscienza repressiva. Comunismo.”, erranza che era compresa come la ricerca infinita dello “sviluppo delle forze produttive” e l’erranza che descriviamo qui. In effetti, l’analisi sola del disastro in corso e la rivolta contro il suo responsabile non implicano necessariamente una distruzione del processo di valorizzazione. Ma piuttosto, si corre il rischio di prestare aiuto alla sua trasformazione.

14Qui Bloch riprende il giovane Marx: la naturalizzazione dell’uomo e l’antropizzazione della natura (Cfr. con la quinta parte di Il Principio speranza: Identità)

15“Prima di vedere le nuove forme di contraddizioni in processo e di devalorizzazione incontrollata, occorre antivedere sul nascere,le nuove forme in cui il valore tende a realizzarsi, costretto ad attingere un livello di organizzazione della sua propria produzione superiore a quello vigente quanto gli basta per rilanciarvi le sue chances di perpetuazione al di là della crisi.” Giorgio Cesarano e Gianni Collu, Apocalisse e rivoluzione, Dedalo libri, 1973, p. 80, §64.

16Jacques Camatte, Verso la comunità umana, Invariance, III, n°3.

17Jacques Camatte, Questo mondo che bisogna abbandonare, Il covile, p. 108 [ndt: edizione in linea, consultabile qui: https://www.ilcovile.it/raccolte/Camatte__4_CeMonde.pdf#page=75 ]. Manca ovviamente un’analisi più lunga dei vari movimenti, emersi in particolare in Germania, Regno Unito e Stati Uniti.

18Questo è ciò che potremmo definire il “falso” dell’ecologia in quanto tale (ovvero una volta che si realizza effettivamente in e per se stessa): il tentativo, sempre impossibile, di ricomporre dei rapporti sensibili al mondo ormai storicizzati. È l’illusione di una possibilità di una vita migliore, non sulla base di una comprensione coerente di se stessi col mondo, ma di una nostalgia romantica che genera ogni sorta di proiezione sulla traccia di ciò che ci riportano l’antropologia, la storia etc. Potremmo male che vada imitare maldestramente queste forme di vita precedenti, parodiarle goffamente, ma in nessun caso incarnarle realmente. L’essere umano, nelle sue molteplicità, non può tagliarsi astrattamente dal mondo vissuto.

19Bruno Latour, op. cit.

20Ndt: storico direttore di campagne Greenpeace, a capo del partito dei Verdi in Francia e candidato presidenziale alle ultime elezioni.

21Giorgio Cesarano e Giorgio Collu, op.cit., p. 17-18, §9.

22https://www.youtube.com/watch?v=bfNamRmje-s

23Jacques Camatte, Questo mondo che bisogna abbandonare, Il covile, p. 76

24“Bisogna tenere a mente che il valore, e poi il capitale sono dei prodotti delle attività umane, e che la rappresentazione dell’autonomizzazione del capitale significa che queste attività diventano secondarie e poi strettamente determinate dal capitale stesso” Jacques Camatte, Verso la comunità umana, Jaca Book, 1983.

25Ma non sarebbe in verità una ripresa della previsione di Rosa Luxemburg, per la quale il declino del capitalismo sarebbe avvenuto nel momento in cui questo si globalizzava? Cfr. Pierre Souyri, Il marxismo dopo Marx, Ugo Mursia Editore, 1973.

26Jacques Camatte, Questo mondo che bisogna abbandonare, Il covile, p. 77

27Id., Verso la comunità umana, Jaca Book, 1983.

28Ndt: Serial Experiments Lain è una serie anime del 1998, ideata da Yasuyuki Ueda e Yoshitoshi ABe. La trama è incentrata sulla vita di Lain e le sue scoperte sul confine tra la realtà e il mondo virtuale di una futuristica rete Internet chiamata Wired.

29Jacques Cmatte, Erranza dell’umanità. Coscienza repressiva. Comunismo, in Questo mondo che bisogna abbandonare, Il covile, pp. 19-20:

“In effetti, al di fuori della distruzione diretta dell’umanità — ipotesi che non si può escamotare — ci sono tre divenire del MPC:

1. l’autonomizzazione completa: utopia meccanista; l’uomo che diventa una semplice appendice del sistema automatizzato, ma ha ancora un ruolo di esecutore;

2. una mutazione dell’uomo, anzi meglio un cambiamento di specie: conseguimento di un essere totalmente programmabile che abbia perduto le caratteristiche della specie Homo sapiens . Ciò non esige necessariamente un’automatizzazione: tale essere domesticato alla perfezione potrà fare qualsiasi cosa;

3. una follia generalizzata: il capitale che si pone al livello degli uomini e realizza sulla base dei loro limiti attuali tutto ciò che essi vogliono (normale o anormale), ma impossibilità per l’uomo di ritrovarsi, il godimento essendo sempre di là da venire. L’uomo è trascinato nel run away del capitale e lo mantiene.”

30Cfr. in particolare Raoul Vanegeim, Banalità di base, Edizioni Anarchismo, Opuscoli provvisori 70, 2015.

31Giorgio Cesarano, Fuori margine, in Manuale di sopravvivenza, Dedalo libri, 1974, p. 196.

32Giorgio Cesarano, Manuale di sopravvivenza, Dedalo libri, 1974, p. 7.

33“La vera fame è millenaria: già carica della sapienza di sé che le consente d’insorgere contro ogni eteronomia tesa a ricarcerarla in un limite designato come l’insuperabilità’ della “condizione umana”. Questo il senso dell’autogenesi creativa: l’autogestione generalizzata come abbattimento reiterato d’ogni barriera al farsi umano, all’origine in divenire della specie signora di sé; lotta a oltranza contro ogni riprodursi aggiornato della ristrettezza politica; abolizione violenta di ogni potere delle contingenze amministrate sulla pelle degli oppressi e a loro nome; riconoscimento e rigenerazione, contro il “bisogno”, del desiderio; inverarsi della passione di vivere contro ogni retorica del limite e ogni poetica del sacrificio. Le condizioni di questa lotta sono inscritte nel desiderio di comunismo come il desiderio di comunismo è inscritto nell’iter preistorico: quale senso avversativo eccedente ogni identità imposta dal potere del mortuum sul vivente; quale differenza fra concatenazione meccanica di eventi (la “storia” degli storiografi e il suo alibi, il pensiero lineare) e coloro che ne vissero la passione di mutare il mondo; quale le discontinuità capace di spezzare il reiterarsi e mandarne a fondo la modellazione cibernetica; quale movimento reale”.
Giorgio Cesarano, Ciò che non si può tacere, pubblicato postumo in Puzz n°20, giugno-agosto 1975.
[consultabile qui https://www.inventati.org/apm/archivio/320/2/PUZ/PUZZSuperamentoOTerrorismo_OK.pdf]

34Giorgio Cesarano, Manuale di sopravvivenza, Dedalo libri, 1974, pp. 69-70, §81.

35Ivi, p. 129, §146.

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