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Note preliminari sulla rivoluzione

Gen 14, 2025

«Ti dicevo: l’insufficienza del nostro linguaggio è la misura della nostra inerzia in rapporto alle cose; che non si possono trasformare quando se ne è perso il senso. Le conversazioni che ho avuto mi danno l’impressione che tutto questo che incontro e vedo sia il passato. […] Rimane una facoltà – l’intelligenza – che non va disertata, e un mondo da costruire. Ora, Nu, troveremo altre parole che riflettano gli atti. E, intanto, mi rifiuto – dopo questo viaggio nonostante tutto felice – di lamentare quella gramezza, questo lutto, che avendo dimensioni insuperabili, ci privava delle nostre amarezze private, e le aboliva».
Danilo Montaldi Parigi, andata e ritorno.

«La politica rivoluzionaria era un modo forse illusorio di mantenere la tragicità della nostra vita. Altre cose sono diverse: ad es. le lotte sul posto di lavoro, la ribellione capillare ai programmi alla disciplina della scuola, anche queste sono cose fatte per non andare avanti ogni giorno nello stesso modo e per strappare qualche giorno alla solita vita, oltre che per altri motivi. Ma non è la stessa cosa, si sa già quando finisce, come essere battuti in partenza».
Luisa Passerini, Diario di una militante.

Nel testo seguente cercherò di abbozzare alcune linee di ricerca e sviluppare degli spunti ancora embrionali relativi al tema della rivoluzione. Questi elementi sono prevalentemente legati a un interrogativo: l’idea di «rivoluzione» è interamente figlia della civilizzazione capitalista nella sua grammatica storica, nel suo orizzonte e regime di temporalità, oppure è possibile un ripensamento di tale concetto? Si può pensare la rivoluzione al di fuori di ciò che la ha caratterizzata come «principio egemonico»1 moderno e quindi – per usare le parole di Jacques Camatte – come forza che integra2 nella dinamica storica del capitale in quanto totalità, come «universale» che non lascia più nulla (comunità, area geografica, sfera della vita sociale) al di fuori di sé? Si può declinare la rivoluzione al di fuori del triangolo che la lega ai concetti di crisi e critica3, in quanto acceleratori del «fenomeno capitale» e stimoli alla sua evoluzione, istanze di negatività che vengono assorbite portando così il capitale ad aggiornarsi, ad affermare la sua comunità universalmente e a superare tutti gli ostacoli che incontra? I cicli rivoluzionari che hanno caratterizzato la storia contemporanea, soprattutto dove abbiano ottenuto momentanee vittorie, non lascerebbero particolari illusioni in tal senso, dato che hanno finito per annettere alla modernizzazione capitalistica aree geopolitiche che prima ne restavano fuori.

Questo punto apre immediatamente alle origini moderne della rivoluzione, al rapporto privilegiato tra «rivoluzione» e modernità del capitale. Per approfondirlo occorre soffermarsi sulla morfologia dell’idea stessa di rivoluzione, sia all’interno che fuori dalla storia del socialismo. Nell’abbordare un problema di questa portata, è utile prendere spunto da un testo abbastanza trascurato di Foucault: una conferenza che tiene in Giappone nel 1978 – La filosofia analitica della politica4 – dove dice che le lotte contemporanee contro le istituzioni e le relazioni di potere segnano la fine dell’epoca della rivoluzione, che sarebbe iniziata in Europa proprio nel 1789. Tra queste lotte annovera le rivolte dei carcerati e l’opposizione alla costruzione dell’aeroporto di Narita, una mobilitazione di massa molto radicale che si stava allora svolgendo alle porte di Tokyo5. Che cosa caratterizza l’«epoca della rivoluzione» ormai prossima alla chiusura?

In pochi punti: una visione della totalità sociale come campo articolato gerarchicamente intorno ad un centro (la contraddizione principale, l’anello debole), quindi delle sfere e dei soggetti che hanno un primato di possibilità trasformativa in senso rivoluzionario; una rappresentazione del potere come campo di conquista e, infine, un’immagine globale e direzionata del futuro, a cui subentra una visione del presente come temporalità indefinitamente aperta. Nello schema proposto da Foucault ci sono due aspetti centrali, sebbene solo abbozzati: la questione della temporalità e il riferimento paradigmatico all’analisi della «Grande Rivoluzione» quale mito fondativo su cui si modella, in seguito, ogni comprensione e variante successiva del fatto rivoluzionario. Ciò corrisponde ad una polarità tra due anime che abitano il concetto di rivoluzione fin dal principio6: la rivoluzione permanente, legata all’immagine della tabula rasa, e la rivoluzione costituzionale ed istituzionale, che ne frena e inquadra il divenire. Questa dualità del fenomeno rivoluzionario compare in molti autori con diverse inflessioni, a cominciare dal fondamentale lavoro di Hannah Arendt, On Revolution7. Tuttavia è in uno scritto minore di Camatte, Caratteri del movimento operaio francese, che la coesistenza delle due anime viene rintracciata, con precisione, agli albori della sequenza rivoluzionaria borghese del 1789, facendone derivare una polarità irrisolta che si ripresenterebbe lungo tutta la storia del socialismo e del capitalismo.

La rivoluzione permanente è per Camatte uno dei due corni dell’idea rivoluzionaria fin dagli albori della civiltà del capitale, quando essa è ancora intrecciata all’ascesa del potere borghese. Quest’idea designa un processo di mutamento storico indefinito che non si ferma ad un qualche stadio o altezza data8, che travolge tutti gli impedimenti e si presenta come puramente formale, quantitativo. Un processo che non è limitato da alcuna fissazione o contenuto determinato. Tale movimento è quindi complice ed isomorfo al ciclo del capitale in quanto autonomizzazione del movimento intermedio. Pensiamo, a questo proposito, a tutta una serie di espressioni dei rivoluzionari francesi dell’89 e in particolare di Saint-Just, che è emblematico sotto questo profilo: «Il rivoluzionario deve riposarsi solo nella tomba»; «La rivoluzione non può fermarsi ad un’altezza data»; «Il fine della rivoluzione è la felicità pubblica».

Sull’evocazione della felicità pubblica da parte dei giacobini e delle altre correnti della fazione rivoluzionaria, sul carattere polisemico di tale nozione e anche, più globalmente, del linguaggio politico rivoluzionario, Lyotard ha lasciato, negli anni ‘70, alcune riflessioni penetranti. In particolare, lo scritto Futilità in rivoluzione evidenzia come intorno all’idea di felicità ci sia una guerra semantica in cui ogni tendenza e corrente immette il proprio slittamento interpretativo. Tutti i partiti rivoluzionari dichiarano di desiderare la felicità pubblica, da Saint-Just alle «Société des républicaines révolutionnaires». Contro la fluttuazione anarchica dei significati delle parole, il dominio della Repubblica e dei giacobini si esercita esattamente in un potere performativo di regolazione del senso, di fissazione e stabilizzazione attraverso un effetto di speech act, che scioglie ogni ambiguità sospetta. Il Terrore è quindi legato, secondo Lyotard, anche a tale fissazione ossessiva del linguaggio che ne argina gli spostamenti di senso, la dislocazione pulsionale. Il discorso politico e il «corpo mostruoso della Repubblica» si affermano perciò mediante il fantasma di unità in un corpo riconciliato, di una costituzione univoca dei significati e delle enunciazioni. Dentro la sua metalingua covano però le divisioni di classi, stati e sessi, di movimenti inassimilabili all’univocità della politica: il paganesimo dei ludi scaenici nel movimento decristianizzazione, irriducibile al teatro della rappresentazione sovrana, l’irruzione della femminilità fuori dalle celebrazioni pubbliche in cui è incasellata nei ruoli di moglie e madre. Si legge:

Non soltanto gli uomini, sono i significati che diventano sospetti e che complottano. Arrestare una volta per tutte il senso delle parole, ecco ciò che vuole il Terrore, mezzo necessario che occorre al desiderio di verità. Ci deve essere un organismo di senso alloggiato nelle parole, il Giacobino pretende d’impadronirsene, di detenerlo e di renderlo manifesto; egli vuole assicurarsene l’uso, cioè l’enunciazione, esclusivi, egli denuncia come menzogna, tradimento o colpevole leggerezza (noi diremmo ideologia) la presenza delle “sue parole” nella bocca degli avversari. Il potere è, a questo riguardo, la detenzione dell’autorità performativa, dello speech act, della capacità di rendere manifesto il significato in quanto referenza: “in realtà”.9

L’idea di rivoluzione permanente, che influenza tutte le correnti storiche del socialismo e che infatti compare parallelamente in Blanqui, Proudhon e Marx, è essenziale perché suggerisce come il fenomeno rivoluzionario apra ad una nuova idea di temporalità, lineare e indefinita.

Non è un caso che Marx la trovi in un libro sulla figura di Marat, Marat: l’ami du peuple, scritto da Alfred Bougeart nel 186510. Tale immagine della rivoluzione è enucleata nella sua trasposizione politica dopo che vengono abbandonati i significati cosmico-ciclici del termine, legati al concetto polibiano di «anaciclosi», come ha sottolineato prima di molti altri Karl Griewank11. L’accezione ereditata da Polibio giunge peraltro fino ad influenzare il linguaggio dei rivoluzionari francesi, dove ad esempio in Robespierre sono ancora presenti, come indicato da Jean Claude Milner12, marcate tracce della concezione classica. Accanto a questa versione infinita e indefinita, destrutturante, della morfologia rivoluzionaria – che Camatte riporta all’emergere germinale del valore, inizialmente capace di imporsi solo dall’esterno alle sfere della società – c’è l’elemento frenante che deve incasellare l’effetto del valore in una dinamica costituzionale. Si tratta perciò di imporre una norma alternativa, un legame. Finché l’astrazione del valore non è ancora immanente al tessuto della società, si rende necessario il ricorso a mediazioni, istituzioni e «operatori di giustificazione» che arginino questa spinta centrifuga del valore, il quale esercita inizialmente una dominazione formale e si appoggia quindi al quadro di una struttura ordinatrice rigida. Solo una volta raggiunta una dominazione reale nella compiuta «comunità capitale», che ha già rimodellato tutte le istituzioni sociali a sua immagine, secondo Camatte, il valore può stabilirsi modificando liberamente le proprie norme. Questo flusso a-significante e deterritorializzato si misura allora solo sul suo proprio divenire quale unico referente, interno e completamente astratto13. Quindi la domanda posta dai Termidoriani, da Sieyés, ma in verità ancora prima dai giacobini è: Come mettere fine alla rivoluzione? Quando la rivoluzione finisce? La fondazione, la costituzione, possono compiere la rivoluzione o la svuotano irrimediabilmente?

Questo è un aspetto evidenziato tra le altre cose da Hannah Arendt, nelle pagine in cui si concentra sulla Rivoluzione francese e sottolinea, appunto, il conflitto tra le due anime che sono compresenti negli stessi uomini della rivoluzione in modo lacerante. Da una parte c’è la tensione a porre la rivoluzione in permanenza per evitare che sia esaurita nelle sue risorse, dall’altra parte, invece, la ricerca di una fondazione costituzionale che perduri nel tempo e conferisca alla libertà pubblica una garanzia, un fondamento:

Per la rivoluzione francese si trattava di decidere se il fine del governo rivoluzionario consisteva nell’instaurazione di un “governo costituzionale” che avrebbe posto termine al regno della libertà pubblica mediante la garanzia di libertà civili e diritti civili, oppure se, per amore della “libertà pubblica”, la rivoluzione doveva essere dichiarata in permanenza […]14

Dietro le teorie di Robespierre, che prefigurano la rivoluzione dichiarata in permanenza, si può scorgere la domanda ansiosa, allarmata e allarmante, che doveva assillare dopo di lui quasi tutti i rivoluzionari degni di questo nome: se la cessazione della rivoluzione e l’instaurazione di un governo costituzionale equivalevano alla fine della libertà pubblica, era allora desiderabile porre termine alla rivoluzione?15

Come si è visto la temporalità assume nella Rivoluzione francese un senso duplice che deriva dal suo ruolo di vettore embrionale, allo stesso tempo, dell’egemonia borghese e dell’egemonia del valore. Egemonia della classe borghese ed egemonia del valore significano anche dominazione ancora formale e dominazione reale del MPC, ma come detto in precedenza ciò comporta due diversi regimi di temporalità storica: il processo dell’incremento illimitato senza contenuto, che supera le fissazioni e le stravolge, si libera delle rappresentazioni – e dall’altro lato il punto di arresto, l’argine a quello che Engels chiama l’effetto dissolvente del valore rispetto ai precedenti legami comunitari. Quindi vediamo nascere il modello della «Rivoluzione istituzionale e costituzionale»16, che deve trovare un nuovo elemento di sintesi, un nuovo centro e «Assoluto» a contenere la spinta centrifuga di questo impulso atomizzante, distruttivo. Perciò subentrano La Nazione, il Popolo, il modello della «Virtù repubblicana», dice Camatte, virtù politica che deve tenere insieme ciò che la destrutturazione delle precedenti comunità ha intaccato.

Non è un caso che uno storico come Piero Violante17 parli di ritorno del centro, della sfera, nell’immaginario politico della Rivoluzione Francese: il punto centrale è un luogo di irradiazione del potere, che deve sostituire uno spazio gotico di interessi, forme organizzative, irregolarità territoriali, con uno spazio regolare, geometrico. Lo spazio della rappresentazione politica di traduce in una trama di municipalità, dipartimenti, distretti, secondo una perfetta divisione di caselle uguali che avvolgono in una rete l’insieme del territorio. Si afferma una «disadorna quadrettatura», uniforme e appianata, governata a partire da un centro in cui si trova lo sguardo del sovrano, occupato prima dal monarca e poi dalla Nazione. Non è affatto un caso che Rousseau, ispiratore primario del pensiero dei rivoluzionari francesi, distingua nel Contratto sociale tra il concetto unitario di sovrano e quello dei suoi ministri e rappresentanti: indipendentemente dal numero di quest’ultimi, infatti, il corpo della sovranità rimane unitario ed indivisibile.

La spinta centralizzatrice si può vedere riflessa, Violante segnala, anche nelle costruzioni estetiche ed urbanistiche dell’arte rivoluzionaria, come dimostra visibilmente il caso di Claude Nicolas Ledoux: si guardi l’esempio dell’abitazione della guardia campestre, sfera al centro perfetto della porzione di territorio che il funzionario repubblicano deve sorvegliare, o il paese-fabbrica di Chaux, singolare anticipazione dello sguardo panottico. Se l’aspetto della rivoluzione come processo senza fine appare con estrema chiarezza in Saint-Just, l’incarnazione dell’idea di centro sovrano da parte della Nazione, che sostituisce l’immagine del Sole cara a Luigi XIV, è particolarmente evidente per quanto riguarda il pensiero dell’abate Sieyès, come hanno evidenziato ancora Violante, Roberto Zapperi18, Carlo Pacchiani19, ma era stato in precedenza sottolineato con particolare chiarezza, anche in questo caso, già da Arendt:

Più che dalle volontà individuali, l’interesse dell’abate è attratto dalla nazione, come questo punto che cristallizza la preesistente volontà comune. L’immagine della sfera ha nella coppia uguaglianza-nazione la sua matrice. In questa sfera – cos’altro mai di più antitetico dell’eccesso e della discontinuità gotica e di più vicino al sogno assolutista? – i cittadini eguali si pongono a eguale distanza da centro che è la legge.20

La realizzazione di questo obiettivo comportò quindi necessariamente l’eliminazione di «tutti gli stati, corporazioni, arti, privilegi, che erano altrettante espressioni delle separazioni del popolo dalla sua comunità». Con il pretesto di abolire i privilegi, Sieyès programmò in effetti la più radicale compressione del principio associativo e la distruzione sistematica delle fonti vivificatrici dell’iniziativa locale. Le autonomie e i poteri locali, le organizzazioni particolari di gruppo, di categoria o di mestiere furono accomunate dalla stessa inesorabile condanna. L’unico soggetto della vita associata doveva restare lo Stato, rispetto al quale i cittadini dovevano porsi in un rapporto diretto ed immediato al riparo della tutela offerta dalla garanzia dei diritti individuali.21

Il decreto Allarde e la famosa legge Le Chapelier, citata da Marx nel primo libro del Capitale, sono un esempio molto significativo in tal senso. Infatti il problema del pensiero di Sieyès e dei rivoluzionari francesi è quello di appiattire lo spazio gotico delle irregolarità sociali non solo nel senso del privilegio aristocratico, ma soprattutto di eliminare qualsiasi possibilità di separazione, spirito di corpo, qualsiasi condensazione di forza che si ponga in mezzo tra sovrano (popolo, potere, tutti i rivoluzionari usano questo termine in un senso estremamente generico), e individuo. Fin dall’inizio il vero spauracchio di questa concezione della sovranità come un tutto è il particolarismo popolare. Devono rimanere soltanto la collettività intesa come totalità omogenea, la Repubblica, a cui i cittadini si possano rapportare soltanto come individui isolati. Per Saint-Just, non a caso, «Tutto ciò che è fuori dal sovrano è nemico».

In ciò si inserisce naturalmente anche l’idea rousseauiana della Volontà generale, per cui l’unica fonte del potere è nel popolo e nessuna altra fonte di potere, come contraltare, può sussistere al di fuori di esso22. È molto indicativo che Rousseau attribuisca al legislatore, in linea col più tardo orientamento di Sieyès, il compito di rafforzare al massimo grado il legame tra i singoli cittadini e la Repubblica, indebolendo quanto più possibile, al contempo, il legame di singoli tra di loro. In questo modo si devono estirpare le «sociétés particulières», riducendo lo spazio pubblico alle due scale dell’individuo e della comunità politica:

Quando il popolo sufficientemente informato delibera, se i Cittadini non avessero alcuna comunicazione tra loro, dal gran numero delle piccole differenze deriverebbe sempre la volontà generale e la deliberazione sarebbe sempre buona. Ma quando si creano degli intrighi, delle associazioni parziali a scapito della grande, le volontà di ciascuna di esse diventa generale in rapporto ai suoi membri e particolare in rapporto allo Stato; si può dire allora che non ci sono più tanti votanti quanti sono gli uomini, ma soltanto quante sono le associazioni. […] È dunque importante, perché si abbia chiaramente l’enunciazione della volontà generale, che non ci siano società parziali nello Stato e che ogni Cittadino dia il proprio parere pensando solo con la sua testa.23

La seconda relazione è quella dei membri tra loro o con l’intero corpo, e questo rapporto deve essere dal primo punto di vista il più piccolo possibile, dal secondo il più grande, in modo che ogni Cittadino si trovi in una perfetta indipendenza rispetto a tutti gli altri e in un’estrema dipendenza rispetto alla Città; ciò si ottiene sempre con gli stessi mezzi, dato he solo la forza dello Stato fa la libertà dei suoi membri. Da questo secondo rapporto nascono le leggi civili.24

Questo non è un elemento che subentra in un momento successivo, nel senso che gli stessi uomini della rivoluzione, innanzitutto francese (ma anche americana ad esempio), inizialmente non parlano di rivoluzione – ma di restaurazione di un diritto preesistente: addirittura Thomas Paine, che è una figura importante per entrambe, dice che le due rivoluzioni atlantiche dovrebbero essere più propriamente chiamate controrivoluzioni. Si tratta di un elemento che peraltro Griewank ricostruisce nei precedenti della nozione di rivoluzione fin dal medioevo, quando ancora non si possono riconoscere i tratti moderni di questa idea, e neppure l’utilizzo della parola se è per questo, ma prevale invece l’aspetto restaurativo ed il richiamo a un diritto originario. Componente che però rimane, paradossalmente, anche nelle occorrenze del lessico rivoluzionario moderno fin dalla coscienza che hanno di sé stesse, come si è visto, le rivoluzioni atlantiche.

La biforcazione della tendenza dell’evento rivoluzionario tra divenire e stabilizzazione, permanenza e compimento o termine, si riflette in un certo numero di esempi che denotano tale circolo vizioso dell’inizio, della costituzione:

1. Sempre Sieyès, che è l’autore che più di tutti insiste sull’elemento della conservazione, della chiusura del ciclo rivoluzionario, indica come l’associazione precede lo Stato, precede la costituzione come assoluto della fondazione politica, ed in quanto tale il potere costituente è un residuum naturale che rimane unilateralmente nello stato di natura – contra Hobbes25. L’associazione è quindi unica, non permette nient’altro che gli individui al di fuori di sé stessa, inoltre rimane la fonte del potere anche quando la cede ai rappresentanti. Allo stesso tempo il problema, come ho detto, è per Sieyès l’esistenza di partiti, di parti separate e in lotta, che è inammissibile perché apre la possibilità della guerra civile. Su questo Maurice Duverger dirà che lo studio dei partiti può essere chiamato «stasiologia»26.

2. In Rousseau c’è una particolare traccia di quello che per i rivoluzionari francesi sarà il circolo vizioso della fondazione, cioè il tenere insieme il tempo della rivoluzione e della conservazione in un unico atto politico, ma soprattutto in un unico tempo. Si tratta di una traccia che evidenzia come questa posizione di un assoluto in quanto coincidenza di inizio e principio (Arendt, Schürmann), sia in primo luogo un assoluto temporale, ovvero di arresto del tempo. Come dice Reiner Schürmann nelle sue pagine della decostruzione del politico, riprendendo i riferimenti di Hannah Arendt, i momenti storici in cui si è data una provvisoria infondatezza del campo politico, una sospensione dell’archè, del principio come origine e comando, sono episodi puntuali come la Comune del 1871, l’insorgere delle società popolari francesi tra il 1789 e il 1793, le comunità autogovernate nella prima fase degli Stati Uniti, il comunalismo rintracciabile anzitempo nei Fratelli del Libero Spirito. Cosa sono questi eventi se non esempi di agire rivoluzionario? Cosa li differenzia dalla Rivoluzione come egemonia? Dice Schürmann che l’azione politica si decostruisce riportandola al suo sito di presenza, impedendo che si solidifichi come un presente perennizzato dalla struttura legittimante del fondamento, universalizzandosi. Questo punto del pensiero di Schürmann risuona con le riflessioni di Lyotard sulla Rivoluzione Francese per due ordini di motivi. Il primo è che l’operazione fondativa del potere, per Schürmann, è quella di piegare il linguaggio deittico e situazionale dell’evento, della sua presenza emergente, alla formulazione permanente di un principio ordinatore, che dà luogo, quindi, ad una struttura archeo-teleocratica.

Allo stesso modo, in Lyotard, l’operazione del potere è quella di un atto linguistico che fissa, riduce e stabilizza la “plurivocità” degli investimenti libidinali, l’oscillazione del significato delle parole, appiattendola sul senso di un discorso esclusivo. Allo stesso modo, come in Schürmann27 i principi egemonici contengono la propria spinta interna di mortalità e svuotamento, che li porta a destituirsi in una tensione tragica sempre riemergente, Lyotard vede nel potere una coesistenza tra eros e thanatos, la cui relazione non è quella di contrasto tra principi distinti ma di dissimulazione e indiscernibilità degli incompossibili. Due regimi pulsionali quindi: Eros e Morte – sintesi e dislocazione. Come interagiscono questi due regimi compresenti e incompatibili? Nella dissimulazione. Essi operano non in conflitto ma in dissimulazione: non nel senso intuitivo (e freudiano), secondo cui da Eros dipende l’unificazione e gli effetti di dislocazione derivano invece dalla pulsione di morte, poiché può anche accadere, al contrario, che una spinta centripeta rifletta un istinto di blocco e fissazione mortifera, soffocante (thanatos) – Robespierre mette in uso la ghigliottina per il desiderio erotico di salvare la Repubblica ma anche per quello inconscio di farla saltare in mille pezzi:

La regolazione delle intensità e il loro ribattimento su un centro unico sembra effettivamente dipendere da Eros, ma quest’attività centripeta può anche celare un movimento mortifero di blocco, irrigidimento e distruzione per asfissia di tutto ciò che l’intralcia. Ascoltare Robespierre di fronte ai decristianizzatori. Le stesse parole celano dei movimenti intensivi di senso totalmente contrario, e sono dei punti di passaggio per delle correnti tanto di amore quanto di odio.28

Tornando a Rousseau, il binomio tra fondazione e arresto della temporalità è condensato nel capitolo VII del libro II del Contratto sociale dove Rousseau parla del legislatore, che deve essere superiore alle passioni degli uomini, agire al di là degli interessi effimeri, dicendo che deve operare in un tempo e godere in un altro. Il legislatore deve vivere nel futuro. Attenzione, quando Rousseau parla del legislatore dice espressamente che per fondare una repubblica ci vorrebbero degli dèi. Ugualmente questo aspetto torna, ad esempio, quando Roman Schnur spiega, in Rivoluzione e Guerra Civile29, nella parte dedicata a ricostruire la figura di Anacharsis Cloots, come per quest’ultimo la rivoluzione debba sostituire l’unità politica all’unità teologica. Qui c’è un evidente aspetto di consonanza con l’idea apocalittica di tempo storico che sarà prevalente nel pensiero rivoluzionario moderno e contemporaneo, nel movimento operaio innanzitutto marxista. Anche nelle frazioni radicali. Pensiamo agli enunciati di Bordiga – vivere come se la rivoluzione avesse già avuto luogo, come se avessimo già vinto. Oppure uno scritto sulle rivoluzioni, anche quella francese, come Fiorite primavere del capitale!, in cui si applica il determinismo marxista in modo estremamente esplicito e meccanico, ponendo una differenza netta tra il punto di vista immediato, transitorio, dei soggetti (interessi, affetti) e quello separato del processo storico, che è su un altro piano e su un altro tempo. Ma più in generale è in gioco tutta una metafisica dei cicli storici che caratterizza gli scritti storico-politici di Marx, il rapporto tra cicli rivoluzionari e controrivoluzionari e l’evento storico-naturale della crisi che segna una periodizzazione necessaria: la prefazione del 1895 di Engels a Le lotte di classe in Francia tra tutti, che con i termini del ciclo e della crisi tiene a battesimo la teoria socialdemocratica, fino alle ricadute che questo lessico del ciclo ha nella tradizione dell’ultrasinistra e in molti suoi approdi radicali. Questo che cosa ha a che vedere per esempio con la Grande Rivoluzione? Molto, perché il nuovo concetto di rivoluzione nasce proprio da una trasfigurazione di quello cosmico-ciclico di successione tra i regimi politici, l’Anaciclosi di Polibio che era arrivata anche ai rivoluzionari francesi tramite la traduzione di Vincent Thuillier (ancora, qui il primo a mostrare questi collegamenti è Griewank, ma è un qualcosa su cui torna Camatte o più di recente Milner). La Rivoluzione diventa azione autonoma con un proprio contenuto – regime politico rivoluzionario, idea rivoluzionaria, figura del rivoluzionario. Allo stesso tempo, però, la descrizione della rivoluzione come dinamica autonoma, come ciclo, che si riflette nella comune metafora della rivoluzione o dell’impulso popolare quali fenomeni naturali, corrente, uragano, pressione irresistibile, che si afferma con l’idea moderna di rivoluziona politica, è riassorbita in nella più antica metafora naturalizzante del processo politico, che fonda il geologico e l’astrologico nella temporalità non controllabile ma prevedibile, che segue una logica propria.

3. Nella visione rivoluzionaria di Saint-Just si combinano tre fattori, come è stato osservato da Abensour: eroismo, terrore e istituzioni. L’eroismo è lo spirito rivoluzionario, di «eccitazione costante», che fa di Saint-Just il creatore dell’idea moderna di rivoluzione permanente: «ciò che non è nuovo in un tempo di innovazione è pernicioso», scrive nel famoso Rapport sur le gouvernement, del 10 ottobre 1793. Il dirigente giacobino si spinge perfino a parlare di uno stato di «salutare anarchia» che deve preservare la nascita della libertà dal ritorno della schiavitù, usando così in modo del tutto inedito il concetto di anarchia come sinonimo di emancipazione.

Il terrore è lo strumento necessario per difendere la repubblica dal disordine ed esorcizzare la divisione, soffocando i nemici dell’ordine rivoluzionario. Esso ha il difetto di prosciugare le risorse dell’impeto popolare che nutrono l’eroismo e consolidano la virtù repubblicana. Poi ci sono le istituzioni, la Costituzione che pone fine alla salutare anarchia e conferisce un’intelaiatura stabile all’esercizio della virtù attraverso la legge. Questo è il punto centrale, la Virtù, intorno a cui la teoria dell’istituzione rivoluzionaria ruota attorno. La Grande Rivoluzione rappresenta un passaggio in cui il flusso dissolvente del capitalismo distrugge i precedenti legami tra gli uomini ma è ancora incapace di costruirne altri: per questo deve porsi come costituente ed istituente, puntando a stabilire la virtù del cittadino in quanto modello normativo e orizzonte di valore, vero e proprio tipo d’uomo su cui la rappresentazione della comunità possa reggersi. Prima di potersi liberare di questa unità di giustificazione la civiltà capitalistica dovrà giungere alla sua dominazione reale. Per questo troviamo in Saint-Just sia il germe moderno della rivoluzione indefinita e del processo puro, senza soggetto e senza fine, sia l’idea dell’ordine come rappresentazione.

Ed è specificamente per queste ragioni che la rivoluzione, in quanto tale, si misura con il terreno di ciò che è globale, della soluzione generale, con una temporalità che è anche quella della conservazione e della durata. Non mi spingo a dire che la rivoluzione deve porre un assoluto, o come sostiene Arendt che rivoluzione e costituzione sono inevitabilmente associati, ma certamente la dimensione del gesto rivoluzionario non può essere quella dell’atto puntuale, dell’immediatezza e dell’esperienza frammentaria, disordinata. La questione è invece quella di sciogliere o tagliare il nodo della fondazione, il circolo vizioso tra emergenza del nuovo e conservazione – che è stato codificato anche come circolo tra il costituente il costituito. Questo singolare si è sempre risolto o con un operatore di giustificazione universale, o con una costituzione delle forme istituzionali. Pensare una durata che non sia costituente, che non costruisca un universale. Ma pensare una durata.

Il comunismo è una dimensione primaria, immediata, elementare, la rivoluzione no. Per questa ragione, le posizioni che tentano di affermare il comunismo senza la rivoluzione, di divorziare il comunismo da una soglia di intensità rivoluzionaria, una soglia di offensività politica, rischiano appunto di stemperare il terreno degli incontri, il terreno dell’etica, rendendolo una parola vuota, impolitica. Questo nodo va pensato più chiaramente, perché l’etica intesa (limitata) come terreno degli incontri o delle forme germinali di affinità non è sufficiente, dato che esiste un uso prettamente riformista e neutralizzante del tema dell’autonomia.

Gustav Landauer è una figura paradigmatica, per la sua traiettoria, della tensione tra questi problemi. In lui si trova certamente il motivo mutualistico e cooperativo giocato contro l’idea di Rivoluzione, che è un’idea proudhoniana che non solo legge in modo errato il funzionamento del capitalismo (usando le strane teorie di Silvio Gesell), ma come mostrato da Mirella Larizza è un’idea sostanzialmente liberale30 – contratto mutevole contro potere. C’è però anche uno scritto come Attraverso la separazione, verso la comunità, oppure soprattutto un testo scritto sul Der Sotzialist nel 1910, Fiacchi statisti, debolissimo popolo, dove è anticipata con assoluta chiarezza l’idea di destituzione – cioè, l’idea che essendo le istituzioni un rapporto sociale possono essere eliminate non con la pura distruzione ma prendendone in carico le funzioni, svuotandone, che non è la stessa cosa di lasciarle intatte e tenersene a distanza.

La forma comune ha una portata strategica rispetto alla ciclicità delle rivolte, come ramificazione di comunità, condensazioni di forza e solidità etica, perché è un sintomo dell’impasse del progetto, del programma: non nel senso che si può espandere in modo interstiziale una rete etica e materiale di incontri, ma che si deve portarla ad una soglia di rottura. In questo senso si tratta di pensare il rapporto autonomia e conflitto in una prospettiva che non è né politica né impolitica (che tra l’altro si incrociano, perché se vediamo le recenti acrobazie filosofiche intorno alla scuola di Esposito, dove si mischiano Gehlen, Castoriadis, l’istituzionalismo giuridico italiano, Latour, eperfino l’operaismo, si parla di un pensiero istituente all’incrocio tra la forma impolitica e il diritto, lo stato, il governo), ma anti-politica, cioè che non tiene a distanza l’istituzione ma ne tocca il nucleo.

In quest’ottica, e vado avanti in modo molto schematico, gli elementi che ereditano la nozione moderna di Rivoluzione da destituire rispondono ad almeno tre figure:

1. L’idea progressiva o di cesura, costruzione dell’assolutamente nuovo che pone la rivoluzione in permanenza, proprio perché non avendo saputo raggiungere una consistenza, una positività alternativa a quella dello sviluppo capitalismo, ne è stato il vettore – il marxismo come giustificazione dell’erranza, teoria dello sviluppo, che non assume una forma oltre l’impermanenza di un ciclo storico di cui padroneggia solo il lato distruttivo. Oblio delle forme. Landauer denuncia questo elemento.

2. Come ho detto, l’idea organizzativa di rivoluzione nel senso interstiziale, un’idea di autonomia ed etica che salta a piè pari il nodo di ripensamento dell’idea di rivoluzione. Questa è un’idea di continuità tra la civiltà capitalista e il comunismo – che solo apparentemente aggira il regime temporale del progresso. Si tratta dell’idea denunciata da Bordiga in Gli scopi dei comunisti, dove attacca contemporaneamente consiliarismo e riformismo perché entrambi vogliono eludere la grande catastrofe del modo di produzione in vigore. Qui c’è una visione che pone l’isolamento dell’etica ma non esclude il ritorno del politico, come dimostrano tutte le deviazioni sostanzialmente riformiste sulle politiche interstiziali, le utopie concrete e altre tendenze del genere. A questo proposito è importante l’opera di Nicola Massimo De Feo, L’autonomia del negativo31, dove indica come la forza comunista sia anche espressione del negativo spontaneo che la civilizzazione capitalista cova al suo interno – quando riscopre figure dell’anarchismo tedesco come Reinsdorf, Peuckert, in quanto anticipatori dell’autonomia proletaria: l’idea di “anarchia come programma minimo” (quindi un comunismo che sta nelle cose) – non come negatività dialettica, ma come negazione pura. Questo secondo tratto è il tratto che cade in un Oblio della distruzione, oblio della negazione.

3. Un terzo elemento, che ho voluto solo introdurre, è quello della periodizzazione statica dell’evento rivoluzionario, periodizzazione come ciclo, che è appunto di nuovo naturalizzato, cancellato come evento e quindi come verità etica. Parlo ad esempio della teoria dei cicli storici elaborata dal marxismo, almeno in alcuni suoi aspetti, e dell’ambiguità delle sue conseguenze. Perché questo comporta un problema? Perché intanto questa periodizzazione predeterminata tra cicli storici rivoluzionari e cicli storici controrivoluzionari si basa su una precisa ontologia del divenire storico – senza la quali non funziona. Si vedano le posizioni di Marx ed Engels rispetto al 1848 in Francia: l’apertura di un ciclo rivoluzionario è possibile perché nel 1847 c’è una crisi commerciale internazionale che raggiunge il suo apice e che viene risolta già nel 1850, per cui in assenza di altre crisi non c’è da sperare in alcun ulteriore ciclo rivoluzionario. Questo Engels, nella Prefazione del 1895 a Le lotte di classe in Francia, lo dice espressamente e lo dice anche rispetto alla fase dopo il 1871.

Non a caso Daniel Guerin, nella prefazione al suo scritto sulla “rivoluzione francese”, seconda edizione del 1968, riconduce l’uso del concetto di rivoluzione permanente proprio a questi scritti storico-politici di Marx, oltre alla lettura del libro di Bougeart di cui abbiamo parlato. Che cos’è questa idea? Il fatto che nelle rivoluzioni emergano forze e soggetti che fanno da trais d’union con i cicli rivoluzionari successivi perché ne anticipano prematuramente le idee, perché compaiono in forma subalterna e verranno a maturità solo quando sarà possibile (le idee comuniste in una rivoluzione borghese ad esempio). E questa idea essenzialmente determinista in realtà emerge in termini molto simili anche nella post-fazione di Kropotkin a La Grande Rivoluzione – con un vocabolario quasi fisico: la spinta della rivoluzione si alza come una marea che supera, perché è stata compressa, il suo punto di equilibrio, il livello storico di avanzamento che può raggiungere, però poi ritorna ad un punto di equilibrio medio dell’evoluzione storica che è comunque più alto di quello precedente o che le riforme avrebbero consentito.

Punto problematico: Jean-Yves Bériou, ad esempio, segnala in Teoria rivoluzionaria e cicli storici come la politica e la teoria socialdemocratica nascano da un’ignoranza della teoria dei cicli storici, voler continuare a intervenire nella corrente storica della controrivoluzione e venirne trascinati (Engels). Ma ci sono qui due problemi:

a. Engels, sempre nella sua prefazione del 1895 usa proprio la teoria dei cicli storici e della crisi per giustificare l’elaborazione delle posizioni socialdemocratiche, in nome di un’adesione stretta alla periodizzazione in cicli, anche contro le illusioni coltivate in passato rispetto alle possibilità di nuove insurrezioni. In altre parole, è la stessa analisi sul ciclo storico in corso che Engels usa per sostenere: l’adesione alla via parlamentare ed elettoralista da parte del socialismo tedesco ed internazionale, l’abbandono definitivo e quasi totale dei combattimenti di strada e della tattica insurrezionale come metodi.

b. Il modo in cui i cicli storici sono assunti dentro questo quadro e regime temporale (per prima cosa da parte di Marx) è usato insieme a una categoria che fa il paio con questo prisma, quella di “partito storico”, esattamente contro la fase cospirativa e delle sette che ha caratterizzato il movimento proletario in precedenza, per porre fine e chiudere questa fase cospirativa, per contrastarla. Come evidenzia bene Rubel nello scritto Le parti prolétaire chez Marx32, ma poi anche Camatte e Bériou, Marx si inventa questa idea proprio per porre fine all’approccio cospirativo delle sette comuniste, ad esempio blanquiste, e in particolare nella lettera a Freiligrath (dove cita la richiesta dei comunisti statunitensi di ricostituire la “Lega dei comunisti”), dice che il ciclo controrivoluzionario non permette ipotesi organizzative ma solo il partito nella grande accezione storica (contro ogni “velleità rivoluzionaria”). Per giustificare questa idea ripercorre una periodizzazione molto simile a quella di Engels: dal 1852 non c‘è più bisogno di organizzazione segreta o pubblica, che è stata solo «un episodio nella storia del partito».

Una possibile via d’uscita, che accenno però in modo puramente allusivo, è quella contenuta nei seminari di Foucault degli anni ’80 – L’ermeneutica del soggetto e Il coraggio della verità – dove riflette sulla soggettività rivoluzionaria, cioè sull’aspetto della rivoluzione che non è processo politico ma rapporto alla verità, fenomeno di conversione che sconvolge la vita del soggetto.

Non bisogna poi dimenticare, infine, che a partire dal XIX secolo la nozione di conversione si è introdotta, in maniera spettacolare, e potremmo perfino dire drammatica, tanto nel pensiero politico, quanto nella pratica, nell’esperienza e nella vita politiche. Dovremo pure, un giorno, fare la storia di quella che potremmo chiamare la soggettività rivoluzionaria. […] Ritengo, pertanto, che non si possa comprendere cosa è stato, nella stessa epoca, l’individuo rivoluzionario, e in che cosa è consistita per lui l’esperienza della rivoluzione, se non si tiene conto della nozione, e dello schema fondamentale, della conversione alla rivoluzione.33

Un «militantismo nel mondo contro il mondo», dice ancora Foucault, una vita altra per un mondo altro, che sostanzia «lo scandalo della vita rivoluzionaria come scandalo della verità». Nella storia delle lotte rivoluzionarie che incubano il movimento proletario in quanto Soggetto presente nello spazio pubblico, la rinuncia al carattere intrinsecamente cospirativo dell’esperienza comunista avviene, attraverso il suggello del marxismo – potentissimo dispositivo intellettuale di accettazione dell’esistente – solo tardivamente e sempre soltanto in parte. Se si osservano i tratti riassunti da Foucault come requisiti del paradigma rivoluzionario, nei suoi interventi degli anni’70 citati al principio, si vede che nessuno di questi corrisponde alla realtà profonda delle sperimentazioni rivoluzionarie per come si sono succedute nella storia moderna. Non un’esperienza unilineare del tempo, non una totalizzazione senza residui del piano della rappresentazione politica, neppure l’egemonia del soggetto proletario come «Grande Fuori» e attore esclusivo di una rivoluzione che è auto-superamento dello sviluppo capitalistico. Bastano scritti come quelli di Poggio, Camatte o Dellacasa sul ruolo della comunità contadina russa nella rivoluzione per rendersene conto. Si potrebbe dire, per risolvere la problematica in una formula, che la rivoluzione non è mai stata moderna. Almeno non interamente.

Allo stesso modo, non sembra che l’effetto della militanza rivoluzionaria sulle condotte, che porta con sé la delimitazione di uno spartiacque biografico, sia mai stata completamente assorbita dalla dimensione politica come sembra sostenere Foucault. Per lui l’istanza rivoluzionaria come forma di vita, manifestazione di una verità inaccettabile, pericolosa, mantiene solo un nesso estremamente precario con la rivoluzione in quanto strategia politica, che è invece identificato tout court all’istituzionalizzazione del partito e dell’apparato. Egli assume in fondo una tensione e una dicotomia tra la dinamica dell’evasione dall’assoggettamento, della «desoggettivazione» e delle tecniche del sé – per loro natura impolitiche ed etiche – e dall’altra parte le forme di organizzazione politica rivoluzionaria che hanno attraversato 800 e 900. Queste corrisponderebbero interamente alla traiettoria di sviluppo dei partiti comunisti e del movimento operaio, liquidando implicitamente una riserva di sperimentazioni in cui la singolarità e l’autonomia sono pensate come reinvenzione della rivoluzione comunista, non come il suo definitivo oltrepassamento. Lo sviluppo dell’epoca rivoluzionaria porta quindi l’eccezione soggettiva delle condotte, estetica dell’esistenza e delle forme di vita in rottura con quanto è comunemente ammesso, a degradarsi e ad essere neutralizzata nell’accettazione conformista delle norme sociali. Il segno della politica rivoluzionaria nel suo complesso, lungo la storia europea, starebbe in questa neutralizzazione del significato della militanza. Questo è il punto, non dissociare l’aspetto della vita di verità e della testimonianza dalla sua carica politica. Mantenendo completamente aperto tale interrogativo, concludo gli appunti solo indicando come sia proprio questa polarità irrisolta il terreno per salvare la questione rivoluzionaria, polarità che non può essere aggirata con nessuna scorciatoia in cui il ripiegamento etico da una parte o il ritorno alla “politica” dall’altra cacciano la domanda nell’oblio. Elvio Fachinelli ha descritto, sulle pagine di L’erba voglio, questa forma di oblio come una funzione anti-tragica della politica di sinistra, cioè il tentativo di rimuovere quelle tensioni soggettive e vitali, nodi, particolarità e problemi, che punteggiano l’agire politico e il comportamento umano senza poter essere mai definitivamente rimossi. Non dalla politica, non dalla storia, non dall’universalità del sociale e delle sue contraddizioni, non dall’accettazione supina dell’economia politica come linguaggio della critica. Forse solo rimettendo in discussione queste riduzioni, riscoprendo il rimosso della coscienza rivoluzionaria, la si può riaprire alla dimensione dimenticata di un comunismo delle singolarità.


1 Per Reiner Schürmann i principi o fantasmi egemonici sono delle strutture di senso, finalità e causalità, intorno a cui si organizzano tutti i valori, i concetti e i significati condivisi di una civilizzazione a un determinato momento del suo sviluppo storico, le cosiddette «economie epocali». L’influenza culturale e storica di questi principi ha una radice metafisica, quella di rendere visibili alcune cose e di nasconderne altre, secondo una certa figura dell’«Essere», in termini che Schürmann ricava dal corpo a corpo con la filosofia heideggeriana. Ai fantasmi egemonici che si sono susseguiti, dalla natura al soggetto, si può forse accostare quello di «rivoluzione», considerando il valore centrale che ricopre in ogni ambito a partire dalla modernità. Si veda R. Schürmann, Dai principi all’anarchia: Essere e agire in Heidegger (1982), Neri Pozza, Vicenza, 2019.

2 J. Camatte, La rivoluzione integra (1978), in Comunità e divenire, Colibrì, Milano, 2019, pp. 20-25.

3 Id., Questo mondo che bisogna abbandonare (1974), Verso la comunità umana, Jaca Book, Milano, 1978, pp. 403-430.

4 M. Foucault, La filosofia analitica del potere (1978), in Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Milano, Feltrinelli, 2020, pp. 98-113.

5 Per una trattazione di questo evento, seminale per la formazione della sinistra rivoluzionaria giapponese e della sua principale formazione, lo «Zengakuren»: K. Ross, La forme commune, Paris, La fabrique, 2023.

6 Tale dualità, mutuata dall’intuizione di Camatte, è già accennata nella prima parte di questo scritto. Il lavoro dove Camatte presenta questa riflessione sulla Rivoluzione Francese, che tuttavia compare in più punti, è Caratteri del movimento operaio francese (1971), in Verso la comunità umana, cit., pp. 181-238.

7 H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), Torino, Einaudi, 2009.

8 Questa precisa formulazione impiegata da Camatte compare in termini pressocché letterali già negli scritti di Saint-Just.

9 J. F. Lyotard, Futilità in rivoluzione, in Rudimenti pagani, Bari, Dedalo, 1989, pp. :, . Un riferimento centrale nel testo di Lyotard è: M. Ozouf, La Fête révolutionnaire (1789-1799), Paris, Gallimard, 1976. Sugli stessi problemi vale la pena citare: E. Roudinesco, Théroigne De Méricourt. Une Femme Mélancolique Sous La Révolution, Paris, Seuil, 1989.

10 A. Bougeart, Marat: l’ami du peuple (1865), Milano, Nabu Press, 2010.Questa fonte viene ricordata da Daniel Guérin nella prefazione alla seconda edizione del suo libro monumentale su La lutte de classes sous la Première République, Paris, Gallimard, 1968.

11 K. Griewank, Il concetto di rivoluzione nell’età moderna. Origini e sviluppo (1955), Firenze, La Nuova Italia, 1979.

12 J. C., Milner, Relire la Révolution, Paris, Verdier, 2016.

13 F. Guattari, Per una micropolitica del desiderio, in La rivoluzione molecolare, Torino, Einaudi, 1978, pp. 151-180. Nello schema di Guattari i sistemi a-significanti sono l’ultimo stadio della produzione semiotica, quello che apre alla possibilità di una piena liberazione degli investimenti di desiderio oltre la sur-codificazione significante, i codici simbolici e l’articolazione duplice tra significante e significato, sostanza e contenuto. In questo stadio è quindi racchiusa tanto la massima penetrazione biologica e psichica dei valori dominanti, quanto le possibili concatenazioni trasversali di enunciazione in campo estetico, amoroso, politico. Se in Guattari l’accento è posto con forte insistenza su questa ambiguità dei flussi deterritorializzanti, in Camatte si rileva una ricaduta sulla territorializzazione arcaica e pre-significante di una comunità organica.

14 H. Arendt, op. cit., p. 146.

15 Ivi, p. 147.

16 J. Camatte, Caratteri del movimento operaio francese, cit.

17 P. Violante, Lo spazio della rappresentanza. Francia 1788-1789, Palermo, Ila Palma, 1981.

18 R. Zapperi, Per la critica del concetto di rivoluzione borghese, Bari, De Donato, 1973.

19 C. Pacchiani, Assolutismo e rivoluzione, in P. Schiera, A. Biral et al., Il concetto di rivoluzione nel pensiero politico moderno: dalla sovranità del monarca allo Stato sovrano, Bari, De Donato, 1789, pp. 41-69.

20 P. Violante, op. cit., p. 124.

21 R. Zapperi, op. cit., p. 135.

22 Questa diretta implicazione totalitaria del pensiero di Rousseau, quale ispirazione del giacobinismo, e nettamente sottolineata in R. Rocker, Nazionalismo e cultura, Catania, Edizioni Anarchismo, 1976.

23 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale (1762), Segrate, Rizzoli, pp. 80-81.

24 Ivi, p. 107.

25 Su questo punto si veda il saggio di Carlo Pacchiani già citato.

26 M. Duverger, I partiti politici, Ivrea, Edizioni di Comunità, 1961.

27 R. Schürmann, Se constituer soi-même comme sujet anarchique. Trois essais, Paris, Les presses du réel, 2021.

28 J. F. Lyotard, op. cit.

29 R.Schnur, Rivoluzione e guerra civile, Milano, Giuffré, 1986.

30 M. Larizza, Stato e potere nell’anarchismo, Milano, Franco Angeli, 1986.

31 N. M. De Feo, L’autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore, 1992.

32 M. Rubel, Il partito proletario (1961), in Id., Marx critico del marxismo, Bologna, Cappelli, 1981, pp. 279-290.

33 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Milano, Feltrinelli, 2011, p. 184.

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