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Radicare il rifiuto in un parco

Lug 4, 2024

uno sguardo e alcuni appunti su un conflitto bolognese

Il 3 aprile mattina, un centinaio di celerini, carabinieri e altre forze dell’ordine si presenta al piccolo parco Don Bosco (Bologna) in assetto antisommossa per espellere dal parco quelle che, alle 7 di mattina, sono poco più che lo stesso numero di persone. La strana amalgama di resistenti è fatta da abitanti del quartiere, giovani, qualche collettivo ecologista… alcune delle persone si stendono di fronte alla polizia, altre si serrano a cordone, altre ancora sono appostate sugli alberi del parco e non accennano a scendere. La situazione si fa movimentata, partono delle cariche e la polizia circonda una parte del parco, portandosi a solo 50 metri dal “presidio” – una casetta che è stata installata al Don Bosco da circa due mesi.

Ogni metro conquistato dal fronte di celerini richiede enorme fatica, verso le 11 di mattina gli operai sbucano dietro il fronte poliziesco e cominciano a tagliare un albero. Riusciranno a tagliarne circa uno all’ora per le successive 4 ore, violando una serie di norme di sicurezza basilari. Gli oppositori al taglio si spostano da un lato all’altro del cordone di polizia, le manganellate non si risparmiano, alcune persone riescono a saltare dentro, abbracciano alberi, uno sale su una ruspa e sventola una bandiera “No Passante”. Verso le 15.30 di pomeriggio, una persona si intrufola nel cantiere attraverso il lato ovest del parco, quello più instabile. È il segnale. Nei successivi cinque minuti il fronte ovest non tiene più ed entrano alcune dozzine di manifestanti. L’operazione di taglio è interrotta.

Due giorni dopo. In piena notte uno studente che dorme al parco viene inseguito da alcuni carabinieri. Lo taserano, lo placcano, usano su di lui spray al peperoncino e lo percuotono violentemente. Viene accusato di furto, la logica è quella di un’intimidazione a chi due giorni prima ha resistito al taglio degli alberi. La solidarietà corre velocissima, chi difende il parco capisce senza esitazione che oggi c’è da difendere Gio. Di fronte al tribunale si trovano più persone ancora che due giorni prima. Gio viene liberato nel pomeriggio. Un’assemblea in serata al parco Don Bosco lo accoglie a braccia aperte.

Flashback

Novembre 2023, in una saletta di un circolo ARCI del quartiere San Donato, il Comitato Besta sta facendo riunione. È composto da abitanti del quartiere, ex o attuali insegnanti e genitori della scuola, persone mobilitate contro i progetti urbani dannosi. La mobilitazione va avanti da qualche mese con raccolte firme, studio del lavoro dei tecnici comunali, sensibilizzazione, incontri di quartiere e anche un incontro con gli assessori. Il Comitato prende nome dalle scuole di quartiere, che il Comune vuole distruggere invece di ristrutturare, per costruire una nuova scuola dove ore sorge metà del parco Don Bosco. Il parco che è uno degli ultimi polmoni verdi del quartiere.

Nel capoluogo emiliano da ormai qualche anno sta montando una protesta diffusa contro vari progetti di ristrutturazione urbana, il più importante di questi è l’allargamento di autostrada e tangenziale, il cosiddetto Passante di Mezzo. La sintonia tra chi protesta contro il Passante e contro la distruzione del parco è immediata, ci sono persone che seguono entrambe le battaglie fin dall’inizio.

29 gennaio 2023

Mentre alcuni operai e vigili urbani cercano di installare il primo cantiere per il progetto Besta, una piccola folla di manifestanti accorsa lì accanto protesta rumorosamente. Alcuni abitanti del quartiere si legano agli alberi. Tutto sembra destinato a veder partire l’ennesimo processo di abbattimento, e invece di colpo una “folata di vento” tira giù le prime transenne. La piccola folla entra in quello che dovrebbe essere un cantiere. I lavori si fermano. Nei giorni successivi spuntano una casupola e delle casette sugli alberi, il presidio al parco Don Bosco è cominciato.

A Bologna la vita politica si svolge su binari paralleli che quasi sempre non si incontrano: il “movimento” più giovanile, il più delle volte orientato al centro città e animato da studenti fuorisede o comunque da persone che vengono spesso da fuori Bologna, e i quartieri fuori dal centro con una popolazione mediamente più anziana e che è bolognese da più tempo.

Ovviamente a quest’analisi sociologica raffazzonata andrebbero aggiunti molti dettagli, ma l’elemento saliente da rilevare è la separazione di (almeno) due sfere del discorso pubblico, mediatizzato, e dei dispositivi di governo, che scorrono parallele. Come elemento preliminare a ogni riflessione sul parco Don Bosco c’è un punto che dovrebbe essere al centro dell’attenzione: l’amministrazione del territorio entra in crisi quando le sfere del discorso pubblico si bucano e quindi quando i riferimenti simbolici che regolano la vita cittadina cominciano a girare a vuoto. Se non si affronta questo nodo, se non si dis-organizzano i discorsi dell’avversario, e invece ci si muove come d’abitudine in una logica molare, della costruzione progressiva di masse mobilitate o coalizioni dal basso, ci si scontra inevitabilmente contro una repressione ben strutturata e si finisce al limite per giocare a posteriori la parte delle vittime.

In conseguenza di una strana alchimia, al parco Don Bosco, nel quartiere San Donato, a pochi passi dal centro di Bologna, si viva una situazione tale che molti riferimenti simbolici smettono di funzionare. E quindi una mobilitazione piccola, molto situata, comincia a esprimere una creatività pericolosa per il governo del territorio.

L’area metropolitana bolognese è interessata da una serie di interventi urbani di grande portata. Dal Passante di Mezzo alle nuove linee del tram, dai nuovi quartieri in costruzione al rifacimento di vecchie scuole. L’obiettivo è allargare il perimetro della città, canalizzare sul capoluogo emiliano più finanziamenti possibili e sfruttarli per raggiungere una nuova dimensione metropolitana. Un intervento che si preannuncia di lunga portata (nessuno crede che i progetti Passante/tram/Lazzaretto-Bertalia saranno finiti prima di una decade) e che quindi ci proietta dentro una Bologna cantierizzata a tempo indeterminato. La resistenza spontanea alla dismissione del verde urbano è prima di tutto rifiuto di questa condizione di rinnovamento perpetuo, di continua ri-organizzazione degli spazi di vita, del trasporto pubblico, dei servizi nel quartiere… di quegli aspetti quotidiani che si trasformano in variabili economiche.

Il discorso ecologico che si concentra sul cambiamento climatico può avere una funzione compatibile col rinnovamento urbano. Se infatti la questione ambientale diventa sinonimo di un calcolo su base planetaria, o di un buon governo del territorio “nel suo insieme”, può funzionare come giustificazione della ri-organizzazione continua degli spazi di vita, decisa dall’alto. L’efficienza, come parola d’ordine governamentale, affiancata da un calcolo ambientale che quantifichi emissioni/consumo di suolo/ecc, può essere una parola d’ordine con cui comandare l’architettura urbana, l’uso degli spazi (e il loro non-uso). Un discorso ecologista che si limiti a inseguire le analisi tecniche più puntuali, cercando magari di “smascherare” gli errori di chi amministra, si troverà sempre in ritardo rispetto all’iniziativa economica che cementa, abbatte, scava, piantuma, cura (bene o male) il verde, ecc.

Esiste quindi un discorso green sul rinnovamento urbano in chiave ecologica, che si trova in dialettica col discorso ecologista planetario “dal basso”, in particolare quello che si è sviluppato a partire dalle mobilitazioni climatiche giovanili degli ultimi anni. Al livello cittadino bolognese, è proprio la rottura del perimetro discorsivo del discorso ecologista-movimentista, dei suoi riferimenti più significativi, ad aver messo più in crisi il governo cittadino del PD sulla questione Passante e (soprattutto) sulla questione del parco Don Bosco.

La critica ambientale costruita dentro gli spazi politici, il tentativo di creare spazi di critica “generale” alle politiche urbane, hanno sempre scontato debolezza e fatica, con una cronica mancanza di traduzioni concrete al di fuori del puro dibattito. La massificazione di queste istanze si è prodotta raramente, e non ha mai dato l’impressione di innescare una forza duratura. Insomma, il piano della sensibilizzazione e dell’opinione ha forse alimentato la polarizzazione del dibattito pubblico su questi temi, ma non ha dato l’impressione di mettere in crisi l’organizzazione concreta del territorio.

Al contrario, sia la lotta al Passante di Mezzo che il (ormai celebre) piccolo parco Don Bosco, hanno generato potenza politica partendo da situazioni specifiche, singoli parchi resistenti; organizzando il rifiuto coordinato di un progetto specifico secondo una sensibilità che era prima di tutto ancorata a un preciso territorio, a un modo di vivere lo spazio, a un’idea di benessere del tutto soggettiva. Secondo un vocabolario caduto un po’ in disuso, non sarebbe impossibile accusare questa mobilitazione di essere NIMBY (Not In My BackYard). Non fate la nuova scuola nel mio piccolo parco!

Eppure eppure.

Le parole che condensano una segmentazione del campo politico sono quasi sempre funzionali a chi vuole governare. NIMBY-vs-coscienza collettiva, la questione non ha nessuna solidità politica ecologista, perché l’ecologia è proprio lo studio del rapporto tra singolarità situate. Non esiste un collettivo generale che sorvoli dall’alto i tanti “backyard” che danno spazio alle esistenze: il mondo è composizione di forze, e le forze sprigionano da attaccamenti reciproci, da luoghi abitati concreti.

Eppure eppure.

Eppure nel modo abituale in cui pensiamo la politica, anche nel “Movimento”, l’esito naturale di una mobilitazione locale è di sommarsi in una critica più generale come in un accumulo progressivo di “coscienza”.

Eppure eppure

Ma davvero c’è più forza in una critica climatica complessiva che nella conoscenza dettagliata degli uccelli del parco dell’associazione di quartiere? Il sapere del climatologo è davvero difficile da gestire per chi governa, se non affiancato al sapere di chi arrampica sugli alberi?

Eppure eppure.

D’altra parte anche il vertenzialismo su una richiesta estremamente specifica è facilmente gestibile in una logica di scambio.

Il parco Don Bosco è questa miscela ingestibile: una rivendicazione specifica, che permette a tant* di fare anche una scelta di vita e non soltanto di portare una critica teorica… ma allo stesso tempo una rivendicazione che è impossibile separare, trattare come uno dei tanti “temi” cittadini, perché la questione degli spazi verdi suggerisce una complicità che non ha bisogno di assemblee politiche. Sono le sensibilità che si sintonizzano; ed i gesti, le raccolte firme, i volantinaggi, le transenne divelte o la costruzione di casette sugli alberi, non servono più a “informare” o “creare coscienza”, ma a costruire un polo di attrazione per lo sguardo. Il punto non è l’alternativa urbana da costruire, ma la potenzialità alternativa che è già qui e può essere liberata.

Le categorie politiche classiche con cui si descrivono, e quindi si segmentano, questo tipo di mobilitazioni – locale o globale, di quartiere o di movimento, ecologista o nimby, di questa o quella generazione, progressista o conservatore – entrano in crisi, funzionano male, giornalisti e politici non sanno bene come dividersi gli interventi. Il destrorso Carlino porta la sua solidarietà al comitato di quartiere ben oltre quello che tutti si aspettavano, la sinistrorsa Repubblica oscura il più possibile l’informazione. Di volta in volta le categorie utilizzate sono “anarchici” o “gente del quartiere”, in una fusione che non si sarebbe potuta produrre se non nella confusione quotidianamente alimentata dalla realtà effettiva del parco.

Dentro al Partito Democratico non sanno a chi assegnare la patata bollente: alla presidente di quartiere, del tutto sprovvista del know how per parlare regolarmente su media a larga portata? All’assessore per la scuola o a quello per i lavori pubblici? O forse sarebbe meglio metterci la faccia della vicesindaca dei centri sociali che si è guadagnata la poltrona inverdendo il progetto di autostrada più devastante mai conosciuto nel capoluogo emiliano? I ruoli si sovrappongono, le letture si incrociano, e intanto tutte le notti qualcuno dorme nelle casette, e intanto tutte le mattine alle 6 c’è una colazione resistente.

Anche la questura cade nella confusione. Si presenta al parco in forze per sbattere tutti fuori come fa d’abitudine con gli studenti o con le regolari occupazioni sociali/abitative, si prepara al copione classico:

dura repressione → esecuzione dei lavori → critica alla repressione da parte delle vittime → dibattito che progressivamente si spegne a progetto ormai eseguito.

Non va così.

Davanti si trovano gente di tutte le età che non esista a stendersi tra i plotoni di celere. Si trovano persone che hanno imparato a salire e restare sugli alberi per giorni. Si trovano un terreno difficile da circondare completamente e la massa di persone non rimane imbrigliata nel confronto muscolare dei fronti contrapposti. Piuttosto i difensori del parco cambiano strategia in modo rapido, finché in uno dei numerosi tentativi un gruppetto riesce a saltare le fila dei poliziotti e aggrapparsi a un albero. Esitazione. Un altro gruppetto entra nel perimetro. E un altro.

Dopo ore di piccoli avanzamenti, cariche pesanti e qualche albero tagliato, questo ennesimo “buco” nelle difese è il segnale che i lavori non possono andare avanti. La ditta di abbattimenti si ritira, i plotoni la seguono e escono dal parco.

Di schianto i simboli non corrispondono più a delle sostanze, e quindi gli ordini non corrispondono ai risultati. Ecoattivisti, bravi cittadini, facinorosi, … chi cazzo c’era al parco?

Il questore lo ammette con un intervento che nella sua banalità risulta illuminante: «pensavamo fosse più facile ma così è difficile, se ci sono comportamenti così diversi nello stesso luogo… La protesta è legittima, ma deve essere senza violenza. Solo così noi possiamo fare il nostro lavoro»

Senza una griglia di questo tipo, la rappresentazione collassa, il braccio armato vortica a vuoto come quei celerini un po’ scemi che cercando di colpire i presidianti hanno defogliato un intero cespuglio di ginepro sul dosso est del parco.

La mossa del sindaco dopo il 5 aprile è ovvia quanto intelligente. Aprire un tavolo di confronto. Tentare di ricucire una dialettica, una griglia simbolica che in qualche modo contenga la situazione. Il progetto non viene messo in discussione, ma le istanze “dal basso” vengono riconosciute. La sua debolezza tattica ancora non è risolta, perché c’è ben poco di contrattabile su un progetto così semplice, allo stesso tempo il dialogo col comitato di residenti può rallentare il momento, frenare l’espansione indefinita di quelle complicità arboree che a un certo punto sembravano prendere piede autonomamente, senza nessuna guida.

Ipotesi strategica: l’unica partecipazione dal basso alle decisioni sulla città che è possibile costruire, è una forza opposta all’amministrazione che si presenti come ostruzione naturale, come disastro per chi governa. Il dialogo democratico è un feticcio che se raggiunto segnala solo il depotenziamento delle istanze iniziali. Lo ha dimostrato il Partito Democratico bolognese quando ha deciso di eliminare con uno schiocco di dita un altro progetto contestato, il sottopasso di via Ferrarese: nessun “tavolo di confronto” coi cittadini, nessuna mediazione; quando la mobilitazione delle Besta ha svelato la presenza di un forte clima di dissenso contro la ristrutturazione urbana, il Comune ha indicato dall’alto i progetti problematici su cui non si doveva proseguire, e li ha eliminati. Come se davanti avesse un’emergenza a cui dare risposte certe, un’onda che rischiava di sommergerlo.

Sul progetto di abbattimento del Don Bosco, invece, il PD e i suoi alleati hanno deciso di non cedere, ed è illusorio pensare di capire del tutto i motivi dietro questa scelta – la valutazione di equilibri tecnici, economici e politici,… –. Ma una volta presa, questa scelta ci si presenta ancora una volta come dato di fatto contro cui opporsi.

La parola Movimento oggi sembra sempre più spesso necessitare di una iniziale maiuscola, che segna il prevalere dell’elemento organizzativo su ogni altro aspetto politico, che segna cioè la continuità di una identità. Al parco Don Bosco, invece, sembra che almeno per un buon periodo la sperimentazione abbia preso il sopravvento su ogni ritualità e abitudine. C’è stata una strana alchimia tra pratiche politiche offensive (di resistenza, di scalata arborea, …) e attaccamento territoriale, a un luogo, a un quartiere. La componente giovanile più sradicata ma che è solita proporre le pratiche politiche più dirompenti, si è abbracciata e confusa con un quartiere non centrale.

Sarebbe un errore tentare di ricondurre tutto questo a una logica di fronti, a una somma di Comitati, o alla costruzione di una unità da contrapporre agli amministratori. La difficoltà dell’amministrazione PD è stata prodotta proprio non fornendo quella catena di rappresentazioni. L’intuizione che vale la pena amplificare, è quella di una moltiplicazione di fronti non unitari. Orizzontalità confusa delle identità. Verticalità di poche istanze comunicative, chiare, capaci di mettere in parole delle intuizioni condivise.

In uno degli eventi organizzati al parco, lo scrittore Wu Ming 4 ha parlato del suo libro sulla banda Hood, il gruppo di banditi che nell’inghilterra medioevale ha dato origine al mito di Robin Hood. In breve la discussione ha toccato il tema della secessione nella foresta, un’attitudine che precede qualsiasi costruzione propriamente “rivoluzionaria”, qualsiasi teorizzazione sulla “coscienza” di un’alternativa. La secessione sembra essere la condizione per il pensiero e l’azione, non una conseguenza. Andarsene dalla dialettica politica, salire su un albero, sono condizioni per darsi le forze… per cosa?

A questo punto la lotta del parco Don Bosco ci pone forse ulteriori domande. Dobbiamo ricostruire un piano politico? Oppure la costruzione di “prese di parola” “soggetti di movimento” “istanze dal basso” comporta sempre di più dei circoli viziosi? Come se questi termini si riducessero in fondo a un tentativo democratico non così dissimile da quello di chi già governa.

Forse la novità introdotta sta proprio in una intraducibilità, in una separazione marcata. Forse la foresta non deve tornare in città, ma restare foresta. Forse si tratta di non fornire ai nemici le parole per trattare, e accogliere questa incomunicabilità come il vantaggio strategico di una nuova fase politica.

Bologna, maggio-giugno 2023*



*questa nota è stata scritta prima della violenta repressione poliziesca avvenuta sul terrapieno nord del parco, il 20 giugno, quando un altro cantiere (dedicato al progetto del nuovo tram bolognese) è venuto a sradicare alcuni alberi dello stesso parco Don Bosco. La distruzione di quelle piante è infine e purtroppo avvenuta. Nonostante questo, il presidio al Don Bosco ancora resiste e il progetto Besta è da più di sei mesi fermo a causa della mobilitazione. Senza nessun facile entusiasmo, ci sembra che questi pensieri appuntati circa un mese fa, mantengano la loro validità

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